Testo e foto di Ruska Jorjoliani
Cavalli
Le narrazioni epiche, dalle nostre parti, erano come le zeppe che servivano a non far traballare il piano di lavoro della quotidianità, con sopra gli utensili di poco prezzo, che ognuno si trascinava dietro come i lunghi e logoranti inverni. Ed erano cavalli, malnutriti e decrepiti ma pur sempre cavalli, le prime creature ad aver animato la mia fantasia di bambina. Vedevo Ciko, un nostro vicino, montare ogni mattina il suo baio, aggiustarsi il cappello di lana grezza, lanciare un grido e sperdersi al galoppo fra le montagne. Erano gli unici esseri, il cavallo di Ciko e Ciko piegato sulla sua cavezza, capaci di sconfinare, di battere i sentieri del limite deciso dalle leggi della natura prima ancora che da quelle umane, e fiutare un’altra aria, un altro mondo velato allo sguardo comune. Bisognava fare una ventina di chilometri, smontare e continuare a salire a piedi per evitare che il cavallo precipitasse in un burrone, poi raggiungere un lago, verde in primavera e azzurro in estate, senza mai sapere come fosse in autunno o in inverno, dato che nessuno aveva mai osato affrontarlo in quei periodi dell’anno, e finalmente vedere la montagna decrescere come la coda di un drago in letargo e scorgere in lontananza le prime case degli altri, uomini sconosciuti, figli di altri dèi: i kabardi.
Non ho mai visto un kabardo in vita mia, e quando chiedevo a mio nonno se esistessero davvero e come fossero fatti, alzava le spalle: «Sono uomini di confine come noi, immagino». Il nonno, così come suo nonno, non aveva mai visto i kabardi invadere le nostre terre, ma diceva sempre che un giorno poteva succedere, che un giorno il drago della montagna poteva scuotersi, prosciugare il lago e spianare la strada ai figli degli altri dèi, che montavano i leggendari kabardouli, cavalli mille volte più forti e veloci dei nostri, e perciò bisognava essere sempre pronti. Così, con una certa enfasi, timore e risolutezza, venivano costruite alte torri di pietra – kabardi o no, nessuno doveva attraversare quelle terre come fossero valli aperte, perché ogni pezzo era assegnato a una divinità precisa, e nulla si riduceva alla sua espressione fisica: c’erano i fiumi, i canti che richiamavano questi fiumi, i morti le cui anime tornavano a casa una volta l’anno, e i vivi che, per non spaventarli, nascondevano alla loro vista armi e altri oggetti appuntiti.
Abbiamo perso la battaglia tempo fa, noi uomini di confine, prima ancora di essere consapevoli del significato di confine, di battaglia, di essere uomini di confine in battaglia. E Ciko, dove poteva andare in groppa al suo cavallo se non a rimirare i resti di ciò che non era mai stato, di un’epicità senza tempo e per questo sempre fuori tempo, di una vita di gesta mai vissute, del confine più arduo da oltrepassare ma anche più pallido, già vinto? Si vedono meglio dai bordi, le forme delle cose, e i cavalli kabardouli continuano a popolare i miei sogni più vividi che mai, e anche se abbiamo perso, anche se non ho mai visto un kabardo in vita mia, e dovesse la geografia in combutta con la storia scaraventarmi ancora più lontano, so per certo che quando ritornerò saranno lì ad aspettarmi, uomini di confine a difesa di qualcosa che mai fu: mio nonno, i suoi kabardi e i loro mirabolanti cavalli.
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