Sono stato tre giorni a Belfast, volevo approfondire i troubles seguendo i passi di Eureka Street, romanzo del 1996 di Robert Mcliam Wilson lì ambientato. Ne è uscita un’esperienza indimenticabile.Viaggiare sulla letteratura è il nostro dogma.
The Street
Arrivo a Belfast nel primo pomeriggio di un freddo giorno di inizio dicembre, subito l’aria del mare del nord mi pizzica sul viso la sua potenza, alzo la sciarpa fino a sotto gli occhi, il berretto di lana fino alle sopracciglia. Ho preso una stanza in un appartamento condiviso, nulla d’eccezionale, ha il wi-fi, costa poco ed è a due passi dal centro. Un quadro sopra il letto attira subito la mia attenzione, ha la tipica forza espressiva dell’arte di massa, ricorda vagamente quegli squallidi quadri che si prendono da Ikea che ritraggono Londra in bianco e nero ma con il bus a due piani a colori. M’avvicino al quadro in questione, è ancora avvolto dalla plastica e l’etichetta del negozio, con prezzo incluso, è lì in bella vista all’angolo. Meglio uscire.

Eureka street è un romanzo pieno di personaggi iconici, divertenti, stralunati e sognatori. Ma è anche un libro che va a fondo nella vita quotidiana degli abitanti di una città che ha vissuto troppo tempo a braccetto con il terrore, le bombe e la paura. Mcliam Wilson gioca con la politica, la religione e gli scontri. Strane amicizie si intrecciano nel libro, da teppistelli dodicenni a grandi uomini d’affari, con sullo sfondo i due personaggi principali: Chuckie protestante e Jake cattolico, legati da una profonda amicizia. Lo stile della scrittura ad alcuni può ricordare il Nick Hornby di Alta Fedeltà, la sua ironia e la sua immensa forza espressiva. Ma nel capitolo più tragico, l’undicesimo che parla dell’attentato dinamitardo a Fountain Street senza risparmiare nessun particolare, si vede una penna autorevole, in grado di andare a fondo nei meandri più nascosti della sofferenza umana. Un grande scrittore, un grande libro, un’immensa Belfast anni Novanta.
Donegall Square, è la prima tappa obbligata per chi visita la capitale nord-irlandese, è il centro cittadino, la cosiddetta zona neutra, qui non vi sono cattolici e protestanti, è una terra di nessuno, è solo il centro. Lo splendido parlamento svetta al centro della piazza, tutto intorno strade piene di negozi ed attività come se ne trovano in ogni capitale del vecchio continente. Erro per le sue strade limitrofe, posso usare serenamente il mio smartphone, la disattivazione del roaming all’estero è ormai un lontano ricordo. Sono solo, mi piace viaggiare da solo, a primo impatto ci si sente un po’ nostalgici e timorosi, ma con il passare delle ore si diventa più sicuri di sé, si fa affidamento alla propria esperienza, si accetta senza remore la persona che ognuno di noi è, per ogni chilometro effettuato la propria autostima si eleva sempre più. Ho bisogno di rigenerarmi, di ascoltare il profondo senza pressioni esterne, per far ciò non c’è maniera migliore che vagare per una città che non si conosce in perfetta solitudine.

Sono passate un paio d’ore, si prende subito confidenza con il centro, non è molto grande, poca gente in giro, ogni tanto attraverso vie completamente deserte, solo il rumore di una lattina trascinata dal vento sulla strada interrompe il silenzio. Sono le sei, ho vagato abbastanza, è l’ora di cominciare a praticare lo sport nazionale irlandese: il pub.
The Spaniard, in Donegall Street, è un locale piccolo ma con un atmosfera molto accogliente. Entrando l’angusto odore tipico di ogni pub d’Irlanda m’assale, ma dopo un po’ ci si abitua ed anzi lo si fa rientrare nelle autenticità locali, quelle che poi si raccontano agli amici al rientro. Visi pallidi e panze sporgenti, il chiacchiericcio è piacevole, ho bisogno una Guinness, poi ne prendo un’altra, alle nove di sera ne ho bevute sei e parlo con chiunque nel locale, riprendo un po’ di confidenza con la lingua, la gente incuriosita mi chiede cosa ci faccia io da solo a Belfast con quel freddo, quando gli dico il motivo rimangono attoniti ma comunque si complimentano: ho letto “Eureka street” di Robert Mcliam Wilson ed ho deciso di approfondire la questione dei troubles, ovviamente le informazioni da casa non mi bastano, devo andare sul luogo, è la mia vita e le passioni mi piace sentirle sulla pelle.
Per quanto incantata e sfavillante, Belfast parla chiaro. Le bandiere, le scritte sui muri e i fiori sui marciapiedi parlano chiaro. E’ una città in cui la gente è pronta a uccidere e a morire per pochi brandelli di stoffa colorata. Un’assurdità, un rompicapo che avvelena il sangue, una spirale senza fine che impedisce ogni cambiamento.
Black Cab
E’ mattino, devo incominciare ad esplorare seriamente la città, voglio sentire le storie di Belfast: i suoi drammi passati, i suoi racconti presenti e le sue speranze future. Dal 1969 al 1998 protestanti e cattolici si sono uccisi a vicenda in una guerra civile urbana sanguinaria che ha straziato un popolo meraviglioso ed ha ucciso più di tremila persone, la maggior parte delle quali, come è facile immaginare, non avevano nulla a che fare con i gruppi armati e le rivendicazioni politiche. Ho sempre pensato che il motivo religioso fosse un pretesto, che doveva esserci qualcosa di più importante, di più economico, altro motivo che mi ha spinto a venire fin qui.
Prendo un black cab per fare un tour dei murales della città, è un’esperienza che consigliano in molti, l’autista funge sia da taxi driver che da guida. I black cab erano gli unici che entravano nei quartieri caldi durante i troubles, spesso a rischio della propria vita. Alcuni di loro sono stati sgozzati, molti feriti gravemente. Robert, la guida che mi sta portando in giro, ha subìto invece un attentato d’arma da fuoco in un quartiere protestante, è stato ferito alle gambe da tre colpi di pistola. Era il 2001 quando avvenne, mi porta addirittura all’incrocio in cui gli spararono, quasi una riproduzione balistica del tentato omicidio. Mi spiega che nonostante il cessate il fuoco fosse stato proclamato nel 1998, gli uomini erano ancora pieni d’astio e rancore, per tutti gli anni duemila è proseguita questa assurda guerra nonostante la tregua. Mi porta in diversi quartieri, di entrambe le fazioni, non riesco a memorizzare tutti i loro nomi, ma da queste parti a parlare sono i murales e le storie che si manifestano nell’aria:
L’intera superficie della città pullula di vita. Il terreno è reso fertile dalle ossa dei suoi innumerevoli morti. La città è uno scrigno di storie e di racconti presenti, passati e futuri. E’ un romanzo. Gli uomini e le donne che vi abitano sono racconti affascinanti, infinitamente complessi. Anche la persona più noiosa e ordinaria è un racconto che non teme il confronto con la trama più bella e più ricca di Tolstoj. E’ impossibile rendere la grandezza e l’incanto di un’ora nella giornata di un qualunque abitante di Belfast. Nelle città le storie si incrociano, si scontrano, si fondono e si trasformano in una Babele di narrazioni.

E’ molto bello visitare la città dalla prospettiva di un black cab, attraverso quartieri che difficilmente penso che avrei visto se mi fossi mosso a piedi e senza guida. Vedo le prime case a schiera, che da queste parti chiamano row, sono in tipico stile vittoriano, mattone rosso vivo e massima promiscuità tra gli immobili. Ma dietro la row, tra una casa e l’altra, si intravede un qualcosa di colore verde militare, sembra di ferro e molto alto, intuisco cosa sia ma non ne sono certo, chiedo a Gary, la mia previsione è confermata: è un muro, separa un quartiere protestante da uno cattolico. Appena la schiera termina tutto è molto più chiaro.

In Eureka street l’autore, con uno stile ironico e profondo allo stesso tempo, parla della sua Belfast negli anni novanta, quando il sentire in lontananza il boato di un’esplosione non provocava che un leggero fastidio. Era diventata un’abitudine talmente diffusa che le persone proseguivano a fare ciò in cui erano impegnati in quel momento senza praticamente batter ciglio. Erano così assuefatti dal quel quotidiano terrore che oramai era come se fosse diventato una parte immutabile del paesaggio.
Negli anni Settanta, dopo le prime bombe le strade di Belfast sembravano più spente, sbiadite, quasi fossero saltati in aria anche i colori. Ora invece le esplosioni erano diventate soltanto una seccatura, un problema per il traffico.
Robert è una guida molto appassionata, ha vissuto i troubles sulla propria pelle. Ogni abitante di questa città ha almeno un parente, un amico, un compagno di scuola o un collega di lavoro che è stato coinvolto direttamente nel conflitto armato. Mi porta a vedere un luogo molto particolare, una vecchia scuola cattolica che non solo si trova all’interno di un quartiere protestante, ma è situata propria di fronte una scuola protestante. E’ stata centro di scontri acerrimi durante il trentennio di fuoco, addirittura i bambini non sono potuti andare a scuola per molto tempo perché i protestanti vi avevano posto una sorta di barricata, non volevano “contaminazioni” nel loro quartiere. Ad un certo punto il sindaco della città ha risolto la questione: ha fatto dipingere le inferriate della scuola cattolica di verde e quelle della scuola protestante di blu, scontri terminati.

Il tour prosegue, abbiamo preso confidenza, anche se l’inglese di Robert è troppo rapido per me ed alle volte mi perdo, riesco comunque a seguire le sue spiegazioni. Ci tiene particolarmente a farmi visitare un luogo a cui è molto affezionato. E’ un cortile di case all’interno del quale vi sono diversi murales commemorativi di combattenti dell’Ira, tira fuori dal cruscotto due proiettili di gomma, una sorta di facsimile degli originali che venivano usati per far fuoco durante i troubles. Mi narra delle loro storie, del loro coraggio, dei loro ideali, ne è molto fiero, lo vedo emozionarsi, è sincero. Prendo in mano i due proiettili di gomma, sono morbidi e massicci, se fossero stati in vendita avrei potuto farci un pensierino, lo riconosco.

A notte fonda, però, la fresca brezza che attraversa Belfast sussurra che l’odio è come Dio: non lo potete vedere, ma se combattete in suo nome e credete ciecamente in lui, riscalderà le vostre notti.
Ormai sono più di due ore che va avanti il tour, ci avviamo per una strada di curve sali e scendi, è vorticosa e piacevole, ad un certo punto un immenso muro verde ci accompagna per diversi chilometri, vi sono splendidi murales, milioni di scritte di vario genere ed alcune iscrizioni che ricordano altre città nel mondo separate da muri. Siamo in Shankill Road, roccaforte unionista e forse l’emblema più lampante della separazione cittadina. Attraversarla è un’esperienza molto profonda, continuo a domandarmi com’è possibile tutto ciò e per quanto tempo ancora. Ci sono ventisette muri a Belfast, simbolo di odio, sangue e intolleranza. Le nuove generazioni vogliono dimenticare, ma i muri sono ben eretti a dimostrare una divisione che è sempre viva negli occhi della sua gente.
Sentire espressioni come “strada cattolica” e “area protestante” mi continua a stupire, come può una casa essere cattolica o protestante? Eppure quando bisogna descrivere questa realtà è difficile trovare altri termini (Gerry Adams, “Strade di Belfast”, Gamberetti editrice 1994).

Lascio Shankill Road con un nodo di stupore nell’anima, sono ancora turbato. Fratelli che si odiano, che insegnano ai propri figli di continuare ad alimentare vendetta e rancore. Quanta violenza è passata in questo luogo, assassini depravati hanno trasformato questa città in un cimitero a cielo aperto, in un posto pieno di fantasmi, di paura. La consapevolezza appresa dalla letteratura si è trasformata in una sensazione reale e visibile, in qualcosa di tangibile. Il tour in black cab mi ha insegnato molto sui troubles, è un’esperienza da intraprendere senza pensarci due volte se si vuole approfondire il conflitto nord-irlandese.
I suoi abitanti vivono in un mondo andato in frantumi, ma ancora affascinante. Se ad un certo punto vi trovate in strada e per qualche incredibile istante non passa una macchina e il rumore del traffico si affievolisce, e vi guardate intorno contemplando i marciapiedi, i lampioni e le finestre e ascoltate con attenzione, potrete sentire i sussurri dei fantasmi di quelle storie.
Ma come vivono oggi gli abitanti della città il rapporto con il peso della loro storia? Bisogna andare a chiedere, gli irlandesi sono un popolo molto gentile, aperto ed amichevole. Torno in Donegall Street, è la zona dei locali, del movimento notturno, della musica dal vivo, delle vecchie e delle nuove amicizie. Faccio il tour di un paio di pub del quartiere, la gente mi vede solo e mi comincia a dare confidenza con naturalezza e sincerità, è come scoprire un’altra città. Parlo con persone di ogni età, la cordialità è di casa in quest’isola magica, è più forte dei contrasti politici, è più forte della violenza, supera ogni muro. E poi la musica, forse il nutrimento spirituale più intenso di questo popolo. La senti ovunque, ogni persona ne è pervasa, la gente sembra essere sempre di buon umore, nessuno crea patine di diffidenza verso gli altri. A Belfast può capitare, anche con sei gradi sotto zero, di vagare per le sue strade ed assistere a scene come queste:
La serata è piacevole, mi godo un bel live degustando delle Guinness, lubrificante sociale per eccellenza dell’isola. Conosco una coppia di persone adulte, hanno figli della mia età ed anche più piccoli. Sono molto simpatici e chiacchieriamo di gran gusto. Mi dicono che le cose sono notevolmente cambiate negli ultimi venti anni. Nella zona in cui siamo adesso, che è il centro della movida cittadina, fino a metà degli anni novanta la sera era deserta, la gente aveva paura ad uscire. Adesso le nuove generazioni si sono stancate e vogliono vivere come tutti i loro coetanei nel resto d’Europa, per i ventenni di Belfast di oggi i troubles cominciano ad essere un fastidioso fardello da portarsi dietro, li deridono ridendoci su, dando dei trogloditi alle generazioni precedenti, che hanno passato il tempo a trasformare un popolo pacifico ed una terra di gran cuore in un macelleria messicana. Ci vorranno due generazioni affinché si affievolisca l’odio, più o meno chiunque mi dà questa tempistica. Ogni uomo in questo mondo ha diritto alla felicità.
Da ragazzo avevo spesso sperato che in futuro le cose sarebbero andate diversamente, e dalle fitte nebbie del passato e del presente dell’Irlanda sarebbe sorta una nuova progenie: i Nuovi Irlandesi, che avrebbero spensieratamente contraddetto ogni credo religioso e atteggiamento politico tradizionale. Sarebbero allora esistiti i cattolici lealisti e i protestanti repubblicani, i politici onesti e i poeti intelligenti.
Bisogna tornare un po’ indietro nel tempo per comprendere meglio. Nel 1921 l’Irlanda diviene indipendente dal Regno Unito ma la Ulster, la contea a nord-est dell’isola, rimane sotto l’egemonia britannica. Il motivo ufficiale è che è popolata principalmente da protestanti che vogliono rimanere fedeli alla Regina. L’Irlanda è invece un paese profondamente cattolico, ciononostante accetta il compromesso, Dublino diventa la capitale del nuovo Stato ma Belfast e la sua regione rimangono con la Gran Bretagna. E’ il principio dei troubles, la popolazione cattolica di Belfast comincia ad essere discriminata pesantemente, i loro quartieri rimangono più poveri, le loro genti non riescono a trovare lavoro, le quote di distribuzione delle case popolari o di qualunque forma di incentivo o assistenza sociale è tutta a favore della popolazione protestante. La disoccupazione e la povertà galoppano nei quartieri cattolici, che allo stesso tempo vedono lo sviluppo dei loro concittadini più fortunati solamente perché nati in quartieri protestanti. Per quasi cinquant’anni il vento dell’ingiustizia soffia prepotentemente sulla popolazione cattolica. Nel 1969 l’Irish Republican Army (“Esercito Repubblicano Irlandese”, IRA), che già combatté nella guerra di indipendenza irlandese contro i britannici nel 1919, si riarma. L’obiettivo principale dell’insurrezione è portare giustizia ai cattolici, unirsi al resto dell’Irlanda e togliersi per sempre dal giogo degli odiati inglesi. Iniziano i troubles, in poco tempo Belfast diviene una polveriera, carcasse d’auto bruciate diventano le trincee urbane, in molti quartieri si impone il coprifuoco al calare della sera, una spirale di violenza inaudita si abbatte sulla città. Si formano vari gruppi para-militari a sostegno di ognuna delle due fazioni. Il governo inglese deve intervenire, ma riportare la calma dopo che si è aperto il vaso di pandora non è impresa semplice. Manda i militari con i cingolati a Belfast, probabilmente i suoi servizi segreti danno sostegno ai gruppi armati protestanti, ma non basta, la città è un’inferno in fiamme. Ed è in questo momento che il parlamento britannico approva una delle leggi più anti-democratiche della sua storia: l’internamento senza processo per i sospettati di attività terroristica. La mattina del 9 agosto del 1971 il regolamento entra in vigore. Quel giorno 342 uomini, in prevalenza cattolici, vengono arrestati e messi in carcere. E’ l’ennesima goccia che fa traboccare il già devastato vaso, l’Ira comincia a compiere attacchi dinamitardi sul suolo inglese, Birmingham e Londra subiscono attentati atroci, decine di persone muoiono nelle deflagrazioni. Per queste bombe vengono arrestate persone innocenti e completamente estranee ai fatti, la loro unica colpa era di essere nord-irlandesi. In the name of the father, film capolavoro di Jim Sheridan con Daniel Day-Lewis del 1993, tratta proprio una di queste incarcerazioni ingiuste, portate avanti con la menzogna solo per tranquillizzare la popolazione che i colpevoli erano stati assicurati alla giustizia.
Se per molti l’Ira rappresenta l’identificazione nella lotta e nella speranza di un futuro migliore, ciò non si può sicuramente di dire dell’autore di Eureka Street Robert Mcliam Wilson, cattolico moderato, che vede con i suoi occhi il degenero di questi uomini, che cominciano ad abusare della loro influenza sulla popolazione con azioni che di umano hanno ben poco. Oltre al fatto che non si creano nessun problema ad uccidere gente innocente con le loro stragi, celandosi dietro la dubbia filosofia del male necessario. Lo scrittore nord-irlandese ci va giù pesante:
Quelli dell’IRA dicevano di voler mantenere l’ordine nei quartieri dei cattolici. E lo facevano, eccome se lo facevano. Non esitavano a sparare nelle gambe a un ragazzino se quello rubava una macchina per andare a farsi un giro, o si fumava un paio di spinelli, o magari aveva il coraggio di rispondere male a qualcuno di loro anche se sapeva che avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Tuttavia, non riuscivo proprio a vedere come un simile comportamento socialista potesse essere il risultato della loro presunta ideologia socialista.
West Belfast
Nevica intensamente, la temperatura si è ulteriormente abbassata. Doppia calza e triplo maglione sono necessari, non sarà certo una raffica di neve a fermare la mia missione. E’ venerdì, c’è il mercato del pesce, dicono che sia una cosa imperdibile. Vado a dare un’occhiata: un casermone al gelo, sono presenti tutti i turisti della città a gironzolare tra i banchi con le loro Canon al collo. Non è roba per me. Rifuggo quando non sono passati neanche tre minuti. Ho luoghi più seri da visitare, la neve mi è compagna, l’adrenalina s’alza, il gelo si trasforma in energia, m’avvio verso West Belfast.

Una delle zone più pericolose di Belfast, una giungla nota in tutto il mondo: West Belfast. Ma in realtà non c’è niente di speciale: i bambini con lo scorbuto e le vecchie grasse e sfatte sono solo vecchi stereotipi. Qualunque città ha quartieri simili, se non peggiori: anche nella vicina Dublino, o a Londra, si trova gente tragicamente e disperatamente povera, inguaribilmente emarginata. Forse i fucili automatici sono di una marca diversa, ma il resto è praticamente identico.
Non siamo lontani dal centro, eppure il tessuto urbano muta a vista d’occhio, le strade sono più spoglie, l’atmosfera più da ghetto. Mi inoltro nel quartiere simbolo dei troubles con le raffiche di neve che si scagliano sul mio viso. Incrocio un gruppo di ragazzi in tuta con uno sguardo torvo, mi seguono con la coda dell’occhio. Vado dritto, poi svolto a sinistra, entro nel cuore del più grande quartiere cattolico di Belfast. Bambini giocano con le palle di neve, alcune ciminiere svettano in lontananza, i marciapiedi e le strade sono un miscuglio di fango e ghiaccio. Mi muovo piano, provo a scrutare qualche particolare, ma altro non mi viene in mente che la scena iniziale del già citato In the name of the father, in cui il protagonista Daniel Day-Lewis, inseguito dai soldati inglesi, scappa divincolandosi tra i vicoli e le case di West Belfast, accompagnato dalle note di Voodoo Child di Jimi Hendrix, ho i brividi.
Su e giù per il quartiere, faccio qualche giro in solitaria ma ho troppa sete di conoscenza, non mi basta vedere, devo sentire, ascoltare, intensificare. C’è un taxi fermo davanti una casa, con aria vaga chiedo se questo è il quartiere dei troubles e se lui sapesse consigliarmi qualcosa da vedere intorno. Ovviamente faccio centro, mi dice che è nato e cresciuto lì e che può parlarmi dei troublesper giornate intere senza fermarsi, può portarmi a vedere dei posti simbolo della lotta. Concordiamo una tariffa, mai soldi sono stati spesi meglio in tutta la mia vita.

Cormac, è lui l’uomo del giorno: tuta blu, cappellino di lana in tinta e coperta sulle gambe. E’ subito un fiume in piena di storie, aneddoti e ricordi. E’ fiero di potermi mostrare la sua versione, i luoghi in cui è cresciuto. Ha una gran passione nella narrazione, mi coinvolge intensamente nella sua emotività. Iniziamo il tour da uno dei simboli di West Belfast, il murales di Bobby Sands, il più conosciuto di tutta la città. Non si può parlare dei troubles senza conoscere la storia di una delle icone della resistenza repubblicana.
Bobby Sands è stato un attivista e politico nord-irlandese, si unisce all’Ira a soli 18 anni, in un diario ritrovato così parla di quel momento: Avevo visto troppe case distrutte, padri e figli arrestati, amici assassinati. Troppi gas, sparatorie e sangue. A 18 anni e mezzo mi unii all’Ira.
Arrestato per la prima volta nel 1972 senza alcun processo, dopo qualche anno esce ma nel 1976 viene nuovamente messo in carcere per un reato di cui non si è mai trovata nessuna prova. E’ anche l’anno in cui il governo britannico toglie lo status di prigionieri politici a tutti detenuti coinvolti nei troubles, inserisce i tribunali speciali per terrorismo e scatena le prime rivolte nelle carceri che sfoceranno nello sciopero della fame del 1981, in cui Sands ed altri nove attivisti, nel giro di pochi mesi, moriranno lasciando un’icona di martirio e ridando linfa alla lotta. Per la maggior parte della gente d’Irlanda lo sciopero della fame fu una tragedia che lacerò i cuori e le coscienze. Pur non approvando la strategia dell’Ira molti condividevano gli obiettivi che gli uomini della violenza cercavano di raggiungere.

OUR REVENGE WILL BE THE LAUGHTER OF OUR CHILDREN
Cormac mi indica orgogliosamente questa scritta sulla parte destra del murales, era il motivo per cui Sands e gli altri nove attivisti si sono lasciati morire. Oggi, dice, a distanza di più di trenta anni le cose sono effettivamente cambiate. Mi fa vedere le strade che attraversiamo, spiegandomi che in quegli anni rischiavi di essere ammazzato senza motivo, che al calare della sera tutti in casa, che andare in giro era molto pericoloso, povertà e degrado erano estremamente diffusi. Adesso si vive molto più decentemente, l’area è piena di locali ed è viva anche di notte, non si spara più e si va serenamente in giro. Cormac ha tre figli, mi racconta che loro hanno un’altra mentalità, sono ventenni e guardano oltre, mi confida di essere felice che la sua prole la pensi così, è il motivo per cui Bobby Sands è morto. Anche lui è concorde con le persone che ho conosciuto la sera prima: due generazioni, è questo il tempo necessario per ripulire le coscienze ed abbattere il rancore. Sentenzia con un sublime: it’s a matter of time!
Siamo su Falls Road, strada simbolo della resistenza: luogo di rivolte, manifestazioni e fermenti vari. E’ lunga Falls Road, dura per diversi chilometri, le case a schiera si alternano a giardini alberati, siamo nel cuore della Belfast cattolica, quella che ha sofferto di più, quella che oggi ha più voglia di rinascere.

Arriviamo al cimitero di Milltown, è sulla parte più alta di Falls Road. Le lapidi si perdono nell’orizzonte, un intenso manto bianco di neve le ricopre e le fa risplendere nell’atmosfera. Cormac mi porta alla nicchia dove sono sepolti i volunteers dell’Ira. A mani nude toglie la neve dalle lapidi per farmi vedere i nomi dei suoi eroi. C’è ovviamente quello di Bobby Sands, ma non solo. Ad un certo punto mi fa prestare molta attenzione ad una tomba in particolare, quella dei Gibraltar Three, tre volontari dell’Ira (Maired Farrell, Dan Mccann, Sean Savage) uccisi a sangue freddo a Gibilterra nel 1988 dalle forze speciali britanniche della SAS (Special Air Service), che sospettavano stessero mettendo una bomba da qualche parte nell’enclave inglese in terra di Spagna. I tre si accasciarono subito al suolo e morirono all’istante, né su di loro né sulla loro macchina e nei loro alloggi è stata trovata alcuna arma e tantomeno una bomba. Alcune inchieste indipendenti internazionali provarono a fare chiarezza ma il governo di Londra ha sempre fatto spallucce alludendo al fatto che fu un’azione preventiva contro un attacco imminente, ma non trovarono mai le prove. La cosa ancora più incredibile è che al momento della sepoltura dei tre, proprio dove siamo adesso, un combattente lealista lanciò una bomba che uccise tre uomini presenti all’ultima preghiera e ferì più di sessanta persone, riuscendo a fuggire dal cimitero in maniera indisturbata, probabilmente sotto copertura. La morte sulla morte, forse il punto più oscuro dei trenta e passa anni di troubles.



E’ un’esperienza profonda il cimitero di Milltown, le storie che ho appena ascoltato mi hanno colpito intensamente. Nella voce della mia guida traspare il dolore di una vita passata dentro questa assurda guerra tra fratelli, ma anche la speranza di potersela lasciare alle spalle una volta per tutte ed assicurare un futuro di pace ai propri figli.
So do not stand at my grave,
I am not there I do not sleep,
Do not stand and my grave and cry,
When Ireland lives I do not die.
(irish rebel — the ballad of mairead farrell)
Abbiamo ancora del tempo, siamo entrati molto in confidenza in questa ora scarsa. Gli parlo della Sicilia di fine anni ottanta in cui sono cresciuto, anche lì i morti ammazzati non erano più una notizia, anche lì la violenza ha traumatizzato un intero popolo. Mi capisce. Ci sono ancora delle cose che vuole farmi vedere, prima l’incredibile gate che collega West Belfast con un quartiere protestante. Pensavo fosse solo un cimelio dei tempi di fuoco ma invece continua ad essere aperto tutte le mattine alle sei e richiuso la sera. Nonostante la tregua, la separazione deve continuare.

Per chiudere vuole farmi vedere Beechmount, una delle parti più povere di Falls Road, piena di murales identificativi con tutte le Belfast del mondo.

Svoltai a destra. Beechomount non era cambiata: la solita squallida viuzza, le vecchie minuscole case a schiera, i soliti poveretti davanti alla porta. Come sempre, qualche bambino correva lungo il marciapiede disseminato di cocci. I muri presentavano una serie di semplici scenette di tranquilla vita quotidiana dei buoni cattolici e fantasiosi murales con schiere di cadaveri e corpi mutilati di soldati britannici.
Ricco come un Sultano del Brunei saluto il buon Cormac, lo ringrazio per l’estemporaneità e la genuinità della sua guida. Sono felice, mi sento bene, la forza della storia mi pullula nelle vene. Mi avvio a piedi per Falls Road verso il centro, ho una cosa ancora da visitare in città, sembra un po’ turistica ma qualcosa mi dice che sarà speciale, in viaggio l’intuito è legge.

Rivelazioni
Attraverso la città, supero il ponte, proseguo per il lungo fiume verso il mare, è lì che si trova il Titanic Museum. Non è uno dei tanti che ci sono in giro per il mondo. E’ l’originale, il più bello, il più nuovo ed il più tecnologico. E’ qui che è stata costruita la nave più famosa e più drammatica della storia. Da fuori sembra un’astronave, il cammino per arrivarci è piacevole, ci sono i gabbiani sul fiume, le montagne innevate che circondano la città cominciano a palesarsi con più forza, gli ampi spiazzi di fronte il museo danno un senso di grandezza, le gru dei cantieri sembrano artigli che emergono dalla terra.

L’ingresso costa diciotto sterline, mai pagato così tanto per entrare in un museo, ma ne varrà la pena. Nella prima parte dell’itinerario viene illustrata, tramite video, incisioni e foto dell’epoca, una ricostruzione della Belfast di fine ottocento. Era una delle città più ricche dell’intero Regno Britannico, che all’epoca comandava buona parte del pianeta. Il cantiere navale della città era il più grande ed importante dell’intero Regno Unito, vi lavoravano più di sessanta mila persone in tutta l’area. Oltre ad essere all’avanguardia nell’industrie del tessile, del tabacco e del lino. La città era il fiore all’occhiello della potenza marina inglese, ed a quei tempi il mondo si conquistava solo via mare.
Belfast è una città a cui è stato strappato il cuore. Una città di cantieri navali, fabbriche del lino e corderie in cui oggi non costruiscono più navi, non si produce più sartiame e non si lavora più il lino. Una città non può sopravvivere se non sa dove sbattere la testa.

Molte cose si cominciano a chiarire, andando avanti nella visita del museo ci si rende conto anche del potere della finanza in questa città a cavallo del secolo passato. L’idea di costruire la nave più grande di tutti i tempi poteva nascere solo qui. Si rivivono tutti i momenti della breve ma intensa vita del Titanic. Dalle impalcature alte decine e decine di metri per la costruzione, alle campagne pubblicitarie dell’epoca per far conoscere il nuovo gioiello, alle condizioni di vita dei lavoratori ed ai tanti incidenti quotidiani, alla ricostruzione in 3d del cantiere. Tre anni e tre mesi per la costruzione, poi la storia la conosciamo tutti. Sono belle le tante sale interattive all’interno del museo, dalla ricostruzione dei fondali oceanici ai touch-screen con cui si possono ricercare tutti i passeggeri presenti sul Titanic in quel dannato viaggio.
“…As the smart ship grew in stature, grace and hue,
In shadowy silent distance grew the Iceberg too.”
By Thomas Hardy
Rientro verso casa, una sensazione rivelatrice m’assale: al momento dell’indipendenza dell’Irlanda nel 1921 Belfast era una città ricchissima, molto più di quanto lo sia adesso probabilmente. L’idea che mi son fatto è che gli inglesi non volevano privarsi della sua città-gioiello, generatore di ricchezza e prestigio. Tenetevi Dublino ma Belfast rimane con la Regina, poi il pretesto si camuffa di religione.
E’ solo il denaro il vero motivo di differenza e discordia.
Il tempo è passato rapido e rapace, un altro giro per il centro per nutrirsi e poi pronti per il rientro. Il volo è molto presto al mattino, mentre attendo l’imbarco un ininterrotto flusso d’immagini scorre nella mia mente. Belfast mi ha preso il cuore, una volta di più ho la conferma che il viaggio è la migliore forma per conoscere se stessi e per comprendere i lati, sia oscuri che lucenti, del pianeta in cui viviamo.

Dicembre 2017
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