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“Racconti di viaggi geografie storie e cose”, intervista all’autore Vittorio Russo.

Ottobre 28, 2021

Una splendida raccolta di racconti che amalgama il viaggio fisico a quello metafisico, trasportando il lettore in una dimensione sospesa tra il magico e l’eccezionale. Una penna cristallina, ipnotica e soave, che zompa dalla giungla nigeriana ai sentimenti del quotidiano, che da Orvieto trascina ai misteri della Via Lattea, per poi immergersi nelle guerre puniche e nella rievocazione dei luoghi della Grecia antica. Un favoloso viaggio letterario che unisce contrade lontane alle esplorazioni dello spirito, che in un momento ti fa esplorare le dee del Nepal e un attimo dopo ti trascina a Santorini, a Paestum, a Varanasi e a Timbuctù, per poi catapultarti nei viaggi filosofici delle parole e nei giorni rivelatori del coronavirus. Un autentico carpiato stilistico quello di Russo, supportato da una collezione di mappe d’epoca da far venire i brividi e da una capacità sopraffina d’emozionare le corde più profonde del lettore.

Appena pubblicato da Sandro Teti Editore, possiamo serenamente affermare che Racconti di viaggi geografie storie e cose è uno dei migliori libri di viaggio pubblicati in Italia negli ultimi anni, grazie anche a un autore che riesce perfettamente a fondere le emozioni dei suoi viaggi con la geografia il mito e la storia dei luoghi, rendendo la lettura un’esperienza trascendente e trascinante. Non potevamo fare a meno di intervistarlo. Buona lettura!

[Tutte le foto presenti nell’intervista sono state gentilmente concesse dall’autore Vittorio Russo e sono attinenti ad alcuni dei luoghi trattati nel libro.]

Nel suo passato ha lavorato molto, come autore, con ricerche e studi sulle religioni e il cristianesimo. Negli ultimi anni ha invece pubblicato, sempre con Sandro Teti Editore, dei libri incentrati più sul viaggio e la storia (Transiberiana , 2017, e L’Uzbekistan di Alessandro Magno, 2019), come è avvenuto questo passaggio e come nasce Racconti di viaggi geografie storie e cose?

Il passaggio al secondo tipo di esperienza letteraria è subliminale. E il riflesso degli studi cristologici si coglie in molti lavori, anche quelli più recenti. L’indagine sulle origini del mito di Gesù, alla quale dedicai svariati anni di ricerca, non produce risposte convincenti sul piano storico. Ho perciò focalizzato aspetti precisi dello studio, Sul sacro, per esempio, che è uno dei temi sui quali indugio volentieri e credo se ne colga traccia anche in questi Racconti. I libri da lei citati derivano tutti da viaggi reali e approfondimenti in svariate prospettive, privilegiando storia, costumi, tradizioni, archeologia, aneddotica, miti, religioni. Molti lavori nascono da un coinvolgimento pieno e profondo nelle curiosità che il viaggio implica. Io credo che solo una vita fitta di curiosità sia degna di essere vissuta. Di curiosità poi, il viaggio ne propone in ragione della preparazione propedeutica a esso, in termini di approfondimenti nelle sfere culturali indicate prima, storia, costumi etc. Questi Racconti sono espressioni di esperienze diverse, in tempi diversi, uniti da una sola sinusoide conduttrice: la cura della scrittura mirata a coinvolgere il lettore, ad avvolgerlo in una sensazione di meraviglia unica. Chi viaggia per raccontare deve fare dei propri sensi gli strumenti di una percezione totale. Attraverso di essi deve consentire a chi legge di vedere, sentire, toccare, annusare. Deve, insomma, esaltarlo delle proprie emozioni, fargli vivere il suo stesso panico, le sue ansie, le sue armonie e il suo entusiasmo (nel senso etimologico più autentico di benessere e possessione divina). La capacità di fondere in un’unica sensazione percettiva tutti i sensi si chiama sinestesia. Per pervenire a essa la scrittura deve diventare strumento di precisione. Le parole devono farsi suono, odore e consonanza al di là della loro portata semantica. Parafrasando Joseph Conrad, uno degli autori che privilegio in assoluto, attraverso la parola scritta l’autore deve abbagliare il lettore, deve fargli ascoltare, sentire e soprattutto vedere quello che egli vede, alla stessa maniera, con la stessa emozione. Quando lo scrittore ci riesce, il lettore è in grado di trovare incoraggiamento, consolazione, paura, fascino e forse anche uno scorcio di verità che può aver dimenticato di chiedere. Credo di poter considerare questo il manifesto della mia scrittura.

Varanasi

Diceva Nicolas Bouvier che la voglia di viaggiare comincia a manifestarsi durante l’adolescenza quando si sta a pancia in giù a sfogliare l’atlante. Come è stato per lei invece?

Nicolas Bouvier, uomo vissuto tra i libri, quasi per eredità, e precoce viaggiatore, dovette aver fatto personalmente l’esperienza dell’adolescente che, a pancia in giù, segue con l’indice il profilo delle coste di mitiche terre. Fissò questo ricordo con un’immagine fulminante. Io ritengo che lungo tutto il nostro percorso di vita, indipendentemente da scelte o conoscenze che crediamo di fare consapevolmente, noi seguiamo un filo ideale. È un filo labirintico che ci guida verso mete e interessi fissati in maniera arcana dentro di noi come un messaggio programmatico. La nostra esistenza è una sorta di anabasi, un percorso verso il cuore della conoscenza. Proprio come il cammino dei mercenari greci al servizio di Ciro il Giovane nel 401 a.C., dalla costa verso la Persia, raccontato da Senofonte nell’opera omonima. Da ragazzi siamo tutti presi dalla vertigine dell’avventura. Ai miei tempi si appagava con letture di libri di viaggio i cui esponenti erano Jules Verne, Emilio Salgari, Luigi Motta, talvolta Jack London e non raramente anche un semplificato Omero dell’Odissea. A tredici anni l’avventura finiva lì, non ci si arrischiava oltre né si badava alle amplificazioni fantasiose, alle inesattezze, alle spericolate trame narrative di quegli autori. La mia avventura di viaggiatore è cominciata così, con Salgari, macchina di sogni, che mi ha fornito il nutrimento, anche un po’ incommestibile, di un centinaio di romanzi, oltre a una sterminata sfilza di racconti. Ho divorato tutto centellinando le pagine e sognando nuove pubblicazioni di quest’autore per me immortale, ma morto fragile suicida. Salgari ispira pure la mia scelta professionale: il glorioso Istituto nautico Duca degli Abruzzi, il più antico del Pianeta, gli studi di astronomia e navigazione, l’oceanografia, la trigonometria sferica, la geografia quale teatro della storia. Il Nautico mi promuove capitano di lungo corso e mi schiude le vie del mare. Viaggiare per professione insegna il metodo, sveglia la curiosità, affina la sensibilità dell’osservazione. Il viaggio diventa con gradualità fulcro di interesse perché appaga il desiderio di conoscenza. Sono uscito piano piano dal guscio letargico dei sogni giovanili. Il viaggio mi ha fatto scoprire che la narrazione di tanti autori è molto spesso deviante. Viaggiare, è stato detto, significa leggere cento libri in una volta sola. Non solo leggere, ma anche correggere informazioni inesatte grazie al contatto diretto. Scoprii che la mia cultura di viaggi creati intorno all’avventura sapeva di muffa libresca, di una sapienza di biblioteca acquisita con affanno di autori da tavolo di cucina come Salgari, appunto. Scoprii pure che la smania di andare non è solo per l’innato bisogno di percorrere il mondo, ma anche per quello di svelarmi a me stesso. Nacque il bisogno di indagare negli angoli bui di un io perennemente sconosciuto perché continuamente fatto diverso da un nuovo sapere. Viaggiare si fece così ponderazione, maturità, riflessione fino a concepire il viaggio reale come l’involucro soltanto, l’apparenza, quasi l’alibi per una interminabile ricerca di una mia originalità.

Nel suo libro il lettore viene trasportato divinamente in varie parti d’Italia, poi in Africa e in Asia, ma anche in viaggi esplorativi dello spirito. Da pelle d’oca il racconto ‘Viaggio col coronavirus’ dove afferma che la scoperta consiste nell’intendere con sensi diversi gli oggetti che prima erano parte di un paesaggio di abitudine. Il viaggio è solo un mero spostamento o anche l’alimentazione quotidiana dei sentimenti e dell’immaginazione?

Sì, viaggiare è anche immaginazione, fantasia, l’andare odeporico da un se stesso a un altro sé. Il viaggio ideale ha sempre mete sfumate, sconosciute. Perché viaggiare equivale prima di tutto a entrare nelle pieghe segrete dei propri desideri; viaggiare è lo sforzo teso a rivelare il senso della curiosità (il cui etimo è proprio aver cura), ad allargare gli orizzonti dell’immaginazione. Viaggiare è la scoperta imprevista di una meraviglia per un miracolo di serendipità. È un termine questo che traduce il ritrovamento fortunato di una cosa non cercata. Viaggiare è capire che anche una scoperta banale può diventare folgorante. Ho detto altrove che i Greci chiamavano alétheia, il non-nascosto, il disvelamento da cui nasce la verità (che poi è la traduzione ultima di alétheia). Così come comprendere che ogni sorpresa e ogni conoscenza pongono nuovi quesiti: ogni cosa muta al crescere del sapere e diventa perennemente un’altra cosa. Il viaggio si fa perciò creatore di cultura, perché significa sottrarre gli eventi alla voracità del tempo e della dimenticanza. Significa dare a essi un senso nuovo e proporlo a chi legge per una sua riflessione. Sono queste le tessere che formano il mosaico del sapere universale. Il viaggio diventa quasi automaticamente la ragione stessa del narrare, del descrivere, perché lo scrittore di viaggi, prima che narratore di esperienze è il de-scrittore delle cose che ha visto.

Nigeria

Nel racconto più lungo della raccolta ‘Sulle ali del mito. Viaggio nella Grecia antica’, affronta un meraviglioso viaggio letterario in Grecia rievocando spesso le energie di siti che non vi sono più e immaginando discorsi di personaggi della mitologia greca. Secondo lei è possibile trasformare questi percorsi in veri e propri itinerari turistici? E quanto mercato potrebbe avere, secondo lei, il cd Turismo Letterario?

Il viaggio anche quando è affrontato con finalità ludiche e di divagazione è sempre accrescimento di conoscenza e la conoscenza è cultura. Il turismo letterario ha di sicuro un articolato futuro davanti a sé. Non è quindi un’affermazione astratta; chi viaggia promuove sapere, diventa lo storico che racconta gli accadimenti della sua esperienza, che lo faccia a parole o scrivendo. Histor per i Greci era il viaggiatore che osservava e riportava. Era il raccontatore dei fatti che danno senso al tempo. Perché il tempo diventa storia solo quando è denso di avvenimenti degni di essere trasmessi ai posteri, fissati perciò in una narrazione per sottrarli all’oblio. Histor è in qualche modo l’equivalente del nostro reporter: quello che va, vede e racconta (riporta). Tutti i viaggiatori sono, perciò, degli histor. Ecco da quali nebbie emerge la figura di Erodoto, il Padre della Storia come lo definì Cicerone, il viaggiatore per antonomasia, che si fa pure mio modello ideale.

Viaggiare è pericoloso?

Tutto sta nel modo in cui si concepisce il viaggio. La differenza tra pericoloso e sicuro è nell’atteggiamento. Tutto in astratto è rischio; muoversi in ambienti poco noti senza una preparazione e una conoscenza della potenzialità del pericolo, può solo accrescere ansia e difficoltà. Il viaggiatore (non il turista, beninteso) è colui che cerca il diverso, perché è nella diversità che trova l’appagamento della sue curiosità. Conoscere il diverso significa affrontare più incognite con minori possibilità di prevenzione. I pericoli sono ineliminabili e spesso imprevedibili. Ogni viaggiatore vive esperienze di pericolo. Ma non conosco viaggiatori privi del buon senso necessario per contenerne i danni. Viaggiare è anche questo, affrontarsi in un braccio di ferro con se stessi, fra la tentazione di andare per scoprire il nuovo e rinunciare. Rinunciare non può essere l’obiettivo (Dante con seguir virtute e canoscenza insegna). Il viaggiatore non rinuncia a nessun obiettivo, neanche a quello più ardito. Sa osare, ma sa che la temerarietà è stupida è sa dove si annida, sa come comportarsi. Viaggiare significa tradurre il desiderio di sapere in conoscenze non in spavalderia. Chi è così animato sa che il pericolo è dovunque, spesso enigmatico e nessuna cautela potrà mai eliminarlo. Guai però a esserne vittima, non esisterebbero viaggiatori. La risposta è perciò: equilibrio.

Orvieto

Dopo la commozione del racconto su Gorée volevo chiederle: perché le energie della storia rimangono eternamente vive in un luogo?

Ogni luogo conserva le energie della sua storia. Occorre però sapere che queste energie si svelano solo al viaggiatore che di quel luogo conosce le vicende. La capacità di avvertire la voce della storia sotto la pelle della geografia è propria di quei viaggiatori che sanno percepire ciò che è precluso ad altri. A Gorée, se preparato dalle cognizione degli eventi che lì hanno avuto luogo, l’emozione ti assale a ogni passo. Le volte che ho visitato l’isola non tutti quelli che mi camminavano accanto vivevano le mie pulsioni. Alcuni, spensierati, si ponevano come soggetti dell’esotico paesaggio dell’ambiente in mitragliate di foto. Ma non erano pochi neanche quelli che avanzavano con passi muti e occhi chini, rileggendo forse nella mente racconti di tragedie di cui quegli spazi erano stati la scena. Qualche anno fa a Samarcanda, una città a me cara, ancor più dopo la lettura della prefazione a un mio libro di Franco Cardini, ebbi modo di visitare da privilegiato le rovine di Marakanda (il nome antico della città). Visitai i ruderi del palazzo dove, stando alle narrazioni di Arriano e Curzio Rufo, Alessandro Magno avrebbe gozzovigliato con compagni d’armi e cortigiane. Al culmine dell’ubriachezza, proprio in quel luogo dove ero avventurosamente giunto, mi fu detto (e io lo credetti fermamente), che il Macedone trapassò con un’asta Clito, suo amico devoto e fratello della sua nutrice. Mentre indugiavo fra quelle pietre sacre per età e per memorie, qualcuno alle mie spalle, mi faceva rilevare che in fondo si trattava solo di pietre consumate dal tempo. Beh, certo, erano pietre. Avevano però la capacità di raccontare, perché, come ricorda l’archeologo Sabatino Moscati, le pietre parlano. Occorre però avere orecchie adatte per ascoltarle. Non parlano a tutti. E normalmente non parlano agli svagati.

Per chiudere: quali sono gli scrittori di viaggio a cui più si ispira?

Questa è normalmente la domanda che maggiormente temo. Il mio imbarazzo sta nell’identificare per ogni tempo e ogni luogo dei miei viaggi l’autore che più può avermi influenzato. Di molti posso tacere ma di uno in particolare non potrò mai farlo. Alludo a Erodoto, che ho già citato. Ho scritto che le sue Storie non smettono di respirare nel mio cuscino quando dormo, in viaggio o nella continuazione di un viaggio, nel silenzio di casa. Porto regolarmente con me anche un gran libro di Ryszard Kapuściński, memorabile scrittore polacco, che s’intitola proprio In viaggio con Erodoto. Gli altri autori, quelli che considero le pietre miliari della letteratura di viaggio, sono il maestro Joseph Conrad (al quale per eccesso di reputazione mi paragona Ennio Cavalli) e poi disordinatamente Jean-Luis Kerouac, Stefano Malatesta, Fosco Maraini, un indimenticabile Tiziano Terzani, Bruce Chatwin, Paolo Rumiz. Ma devo riconoscenza a tanti altri ispiratori, oscuri camminatori, navigatori, esploratori di tutte le vie del Pianeta, le cui opere sono colpevolmente relegate in dimenticati angoli di polverose biblioteche. Dai più antichi come Pitea di Marsiglia a Scìlace di Carianda, da Sataspes a… Dante, che credo senza tema di smentite sia il VIAGGIATORE in assoluto, il più grande di ogni tempo per essere riuscito a inventare perfino la geografia entro cui muoversi. Tanti gli italiani, oltre quelli citati, molti dei quali fanno la gloria del nostro Paese. Essi pure sono di norma ignorati o ricordati (sembra una carità) solo dall’umile onomastica di stradine sperdute. Parlo di Niccolò de’ Conti, per esempio, di Giovanni da Empoli, di Lodovico de Varthema, di Andrea Corsali, di Matteo Ricci, di Francesco Carletti, di Geronimo Veroneo, di Niccolò Manucci, di Gaetano Osculati, di Alberto De Agostini, per citare solo alcuni dei quali ho parlato nei miei libri. Last but not least, come si dice, anche Nicolas Bouvier che lei ha felicemente evocato prima: un viaggiatore di grande intraprendenza, uomo di mare e ideale compagno di penna per quel bisogno misterioso e irrefrenabile che fa quasi sempre dei grandi viaggiatori anche dei formidabili affabulatori. Sono giganti, questi, che hanno affrontato percorsi senza strade, mari senza rotte, viaggi senza orizzonti. Sono erranti pellegrini della conoscenza, del possedere il sapere, del comprendere l’ignoto, ma prima di tutto sono stati esploratori della propria mente. Del resto, come ho mi sono domandato altrove, cercavano veramente il vello d’oro gli Argonauti? Odisseo inseguiva proprio il vento giusto per Itaca? Dante perseguiva forse nel buio e nella luce dei tre regni dell’aldilà conoscenze diverse? Magellano era davvero alla ricerca delle Islas de la Especiería per la via più breve? No. Tutti loro e tutti quelli che non ho citato, cercavano prima di tutto se stessi fra le angustie della vita. Nel coraggio del loro andare senza lossodromie sta tutta la loro grandezza. E da questa scelta affiora la parte sublime dell’uomo che lo rende anche immortale.

L’autore Vittorio Russo

africaasiagrecia
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