Un grande classico della letteratura di viaggio, libro simbolo per ogni viaggiatore che desidera non omologarsi al turismo di massa e voglia vivere il viaggio come un’esperienza mistica.
Tangeri è un porto franco negli anni cinquanta. La sua particolare situazione politica, con la neutralità militare e l’amministrazione sotto il governo di una coalizione internazionale con a capo spagnoli, inglesi e francesi, gli permette di essere meta d’attrattiva di grandi artisti e scrittori americani che, stanchi e nauseati dalla vita bohemien parigina, trovano nella città marocchina un nuovo luogo di sperimentazione creativa. L’omosessualità diffusa e l’uso più che tollerato delle droghe, oltre al fatto di rimanere comunque in un contesto magico come quello maroccchino, portano in poco tempo i più grandi esponenti della beat generation in questa terra di estrema Africa del nord, che guarda in faccia l’Europa ma che sente i venti del deserto accarezzargli la nuca. Paul Bowles è il primo ad arrivare, e lì vi passerà tutta la vita, fino alla morte nel 1999.
Port e Kit, giovane ed avventurosa coppia americana in crisi, decidono di affrontare un viaggio attraverso il Marocco, portando con loro l’amico, neanche così stretto, Tunner. Da Tangeri muovono verso l’interno, attraversando il paese nelle sue viscere più profonde, con ogni mezzo disponibile che trovano. Bisogna immedesimarsi nel contesto, siamo negli anni cinquanta, l’eredità della guerra è ancora forte negli animi dei protagonisti, il Marocco è ancora un paese sottosviluppato, dove si prendono malattie con la stessa frequenza di un paese dell’Africa nera. Oggi il Marocco è uno dei paesi più sicuri dove viaggiare in Africa, mille riad nascono ogni giorno come i b&b in Italia, il turismo è una fonte di sostentamento notevole di tutta la nazione, ma al tempo del viaggio dei tre le cose erano ben diverse.
Il bar era afoso e malinconico, saturo di quella tristezza insita in tutte le cose sradicate […] La felicità, se ancora ve n’era, esisteva altrove: in camere requisite che si affacciavano su allegri vicoli dove i gatti rosicchiavano teste di pesce; nei caffè ombreggiati da stuoie di canna, dove il fumo dell’hashish si mescolava ai vapori di menta che si levavano dal tè bollente.
Lo stile di Bowles è un incanto che unisce il fascino di un Magreb millenario e spirituale ad una cultura spinta e degenerante che la nuova America dei consumi sta imponendo al mondo. Una spavalderia iconica accompagnata da una scrittura sensoriale, con una descrizione dei luoghi e dei colori che lasciano il lettore in uno stato di estasi ed ammirazione permanente. Quasi si sentono gli odori descritti, dal degrado ed il sudiciume delle città e dei centri abitati alla poesia dei colori della natura, della forza del vento, del calore del sole urticante. Si rimane incollati alle pagine e si scopre un Marocco sbalorditivo nella sua autenticità, nei suoi costumi, nei visi delle sue genti, nei mercati, nelle tende, tra le dune del deserto. Ma è il contrasto del viaggiatore occidentale con i locali, in un’epoca antecedente all’invasione del turismo di massa, a destare meraviglia. Port è un vero beat, uno di quelli che quando fiuta il rischio preferisce attraversarlo piuttosto che scansarlo, consapevole del fatto che se gli va bene troverà linfa per continuare a viaggiare. E’ lui che ci insegna la differenza fondamentale tra viaggiatori e turisti. Di lì a pochi anni il turismo cambierà per sempre, l’organizzazione dei tour, da parte dei grandi operatori del settore, toglierà ogni spirito d’imprevisto agli itinerari, verranno imposti dei luoghi da vedere assolutamente, dei luoghi sicuri dove portare danari all’economia locale. I luoghi si trasformeranno in attrazioni per i visitatori, nulla più verrà lasciato al caso. Il razionalismo prenderà il sopravvento sull’ostacolo inatteso, tutto dovrà filare liscio e sicuro, tutto dovrà essere uguale in ogni angolo del pianeta. Leggere Il tè nel deserto è un atto di resistenza per chi ancora crede nelle rivelazione dell’imprevisto durante il viaggio. Occhi aperti ma neanche troppo, farsi guardar male e proseguire dritto, il fiuto prima della ragione, l’intuito prima delle indicazioni della Farnesina. Poi può anche succedere dello spiacevole, ma non è detto, non è così scontato, è un preconcetto che si impone ai turisti affinché affrontino i viaggi seguendo le rotaie programmate, affinché siano sempre controllati, così che possano conoscere solo ciò che già si conosce, ciò che è già stato affermato, ciò che dà sicurezza, e non possano mai andare oltre, verso l’ignoto che è l’unica vera conoscenza del viaggio.
Il turismo è oggi la più grande industria del mondo, muove miliardi di persone ogni anno, si riduce spesso alla famosa affermazione “turisti che guardano turisti” del Prof. Marco d’Eramo nel suo libro Il selfie del mondo, che individua nel turismo di massa uno degli strumenti dell’omologazione del pensiero globale. Leggere Il tè nel deserto dà ancora linfa e speranza a chi crede nel viaggio come scoperta e rivelazione dello spirito, a chi rifugge dal preconfezionato in nome di un’avventura rispettosa del locale, che non si imponga ma si lascia coinvolgere, senza l’imposizione di dover per forza fare le cose “che si devono fare”. Leggete il Tè nel deserto e poi andate a Tangeri e viaggiate su una Marcedes devastata degli anni 40, o a dorso di cammello o su un treno che ci impiega dodici ore per fare duecento chilometri, vivete il viaggio come Port e Kit, ammaliatevi delle sensazioni di popoli diversi di voi, andate in mezzo ai loro mercati, parlate con chi non parla nessuna delle vostre lingue imperialiste, gettatevi nell’ignoto dei luoghi che visitate, altrimenti rimanetevene a casa vostra, ci sarà sempre una piscina comunale nella vostra città aperta anche ad agosto.
Leave A Reply