Un racconto breve per il corso “I sensi di un viaggio” della Scuola Holden di Torino. Ogni racconto è un’esercizio di scrittura su soggetti sempre differenti, in questo primo caso il tema è: descrivere un luogo dove sei stato una volta sola nella vita.
Di Roberto Bruccoleri aliasBlasco da Mompracem
In realtà penso di esserci stato, o piuttosto passato in passato. Ma di ricordi veri non ne avevo, qualche millesimale sensazione, come fuggevoli attimi dell’infanzia.
Passarono diversi decenni e mi ritrovai su quella strada. Per la prima volta la attraversavo, al volante. Era pieno agosto nelle profonde interiora della Sicilia. Alle spalle mi lasciai il petrolchimico di Gela, cattedrale postapocalittica grande come una città, i cui chimici odori dal sapore tumorale perseguitavano a lungo. Svoltai per una strada interna e tutto cominciò a mutare. Il paesaggio si fece più viscerale, il mare sempre più lontano. Immense vallate a lati della strada, di un brullo tendente all’ustionato, facevano da sottofondo al rumore costante della macchina che avanzava. Alcuni muratori lavoravano in lontananza a petto nudo e grondavano come fossero circondati dalla fiamme dell’inferno. I loro movimenti erano ingranaggi perfetti, i loro corpi luccicavano a distanza, i loro muscoli scintillavano nella rovente luce mediterranea. Erano punti di dinamismo in un contesto immobile come il tempo sedentario. Eran tre, si passavano dei materiali, portavano pantaloncini lacerati dalla fatica, calze bianche allentate alla caviglia, scarpe prossime allo straccio. Pensavano d’essere semplici operai, ma erano uno spettacolo di forza e azione, sarei voluto scendere e toccargli la schiena madida per imprimere il loro sudore sulle mie impronte digitali.
La strada avanzava, le valli diventavano sempre più alte e possenti, il loro colore sempre più lavico, la loro forza sempre più infuocata. Abbassai il finestrino. Rallentai. La strada era deserta, lo sguardo costante sul paesaggio. Ebbi come la sensazione di vedere e sentire qualcosa di unico ed irripetibile. Ero così attratto da queste valli bruciate da secoli di arsa calura sicula, che non riuscivo a sentire altro che la loro forza iniettarsi dentro di me, come un diavolo che si impossessa dell’anima. Mi fermai, scesi dalla macchina. Osservai e sentii il silenzioso potere della natura. Una forza di fuoco a cui non ci si poteva sottrarre. Tolsi la maglia, la avvolsi in testa. Qualche raro rumore impercettibile riecheggiava lontano. La luce bruciava tutt’intorno. Non vedovo nulla se non l’escandescenza della natura immobile, che padrona da millenni imponeva la sua legge.
Ripresi il cammino. Continuava il silenzio assordante avvolto nello sfolgorante paesaggio sicul-texano. In lontananza intravidi la sagoma di qualcosa, più m’avvicinavo più si chiariva, era un tavolo di plastica bianco con al centro un ombrellone, di quelli da quattro soldi della sammontana. Lì v’era seduta una donna negra ad offrire le sue prestazioni. Con un cappellino a visiera da croupier, una canotta che lasciava vedere gli strati delle sue panze, degli orridi short chiazzati di lurido. Teneva in mano qualcosa, non capivo cosa. Chiamava e sbraitava verso quei pochi automobilisti che passavano. Erano le undici del mattino di un infuocato giorno d’agosto, nel pieno del nulla siculo a trentanove gradi. Non so se fu una visione ma ero abbastanza certo si trattasse di realtà. Non riuscivo a capacitarmi. Non tanto del perché battesse, e nemmeno perché lo facesse di giorno, ognuno lavora all’ora che più si confà al proprio stile. Ma il tavolino con l’ombrellone e la sedia mi davano un senso di perdizione troppo intenso. Sembrava la versione sicula di quelle prostitute che si scaldavano, nelle gelide notti dei romanzi di DeLillo, intorno alla fiamma di un bidone arrugginito alla periferia di Tucson.
La strada continuava, la valle perseverava ad ardere.
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