Non capita tutti i giorni di leggere l’autobiografia di un uomo come Jacques Bergier, che ha attraversato le fasi più convulse del Novecento vivendo praticamente ogni istante della sua vita creando la Storia, con la S maiuscola, che è arrivata fino a noi. Dalla fuga dalla Russia bolscevica in giovanissima età con la famiglia all’attraversamento dell’Europa centrale, in un’epoca di grandi fermenti intellettuali e politici, all’arrivo in Francia e all’immersione nella scienza visionaria, quella in grado di formare il Grande Gioco del mondo. Scienziato nucleare, lettore compulsivo fin dalla più tenera età, poliglotta e capo della Resistenza francese durante l’occupazione nazista, arrestato e rinchiuso nei campi di concentramento tedeschi, torturato fino allo spasimo, è riuscito a sopravvivere grazie allo spirito, che si è imposto sui dolori fisici del corpo. E poi la liberazione, il ritorno alla scienza, agli studi alchemici e, soprattutto, alla fantascienza, sua grande passione e bussola orientativa dell’esistenza che lo porterà a scrivere insieme a Louis Pauwels, nel 1961, Il mattino dei maghi, libro che cambierà per sempre il mondo letterario con la creazione del realismo fantastico, un insieme di tradizionalismo e modernismo destinato a superare l’umano in un’opera rivoluzionaria che ha cambiato per sempre la percezione del reale e la capacità di proiettarsi verso lo spirito. Bergier è all’unanimità riconosciuto come una delle menti più straordinarie dell’intero Novecento, è riuscito a mettere insieme i più alti principi della scienza come della trascendenza, della passione politica come della creatività letteraria e intellettuale. Leggere la sua biografia ci aiuta a capire cosa il secolo passato ci ha lasciato in eredità e ci dà anche una chiave di lettura per comprendere i duri tempi che ci attendono, seguendo le parole di uno dei fondatori dell’idea, antecedente alla creazione, dell’arma nucleare, e di una persona che i rapporti tra scienza e potere li ha conosciuti a fondo come pochi. Lo scorso anno, la storica casa editrice milanese Bietti ha pubblicato l’immensa autobiografia dell’Amante dell’Insolito e Scriba dei Miracoli (come si definiva lui stesso). C’è voluta la passione e la devozione professionale di Andrea Scarabelli, direttore, per Bietti, della rivista Antarès e della collana l’Archeometro, per portare al pubblico italiano un’opera di cui davvero si sentiva la necessità, soprattutto in questo periodo storico dove il dibattito sul ruolo della Scienza nella società sta avendo una centralità mai avuta in tempi recenti. Già traduttore e curatore di un’altra opera di Bergier, Elogio del fantastico, uscita per i tipi del Palindromo nel 2018, Scarabelli ha permesso il ritorno sugli scaffali delle librerie di un testo bellissimo, una lettura appassionante che arricchisce lo spirito e la conoscenza del mondo. Una volta letta la vita di Jacques Bergier, vi sentirete più forti e interpreterete le notizie di oggi con un occhio più profondo. Fidatevi!
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Abbiamo contattato Scarabelli per un’intervista sull’autobiografia, da lui tradotta e curata nei minimi dettagli e nelle più infinitesimali note. Buona lettura!
Cos’è il Grande Gioco di cui Bergier, fin da giovanissimo, vuole far parte?
Il Grande Gioco di cui parla il Nostro è l’insieme delle attività svolte dai servizi segreti, il combinato disposto di spionaggio e controspionaggio, narrazioni e contronarrazioni, a cui Bergier decise di partecipare fin da piccolo, dopo aver letto i libri di Louis Jacolliot. Non dimentichiamoci che fu un agente segreto, e a questa sua professione subordinò sempre tutte le altre. Lo dimostra il fatto che all’argomento dedicò tutta una serie di articoli firmati “Jérôme Cardan” e “Groupe XXX” sulle colonne di Planète e varie opere, tra cui Agents secrets contre armes secrètes (J’ai lu, 1969) e l’ultimo libro da lui pubblicato in vita, La guerre secrète de l’occulte (J’ai lu, 1978), dedicato all’impiego di metodi parapsicologici da parte dei servizi segreti.
La nozione di Grande Gioco, a mio giudizio, offre una rappresentazione molto realistica della storia, non vedendovi una dicotomia tra Bene e Male – come tende invece a fare una certa storiografia ideologicamente schierata, con un piglio quasi teologico, secolarizzazione del manicheismo giudeo cristiano – ma tra amico e nemico (Carl Schmitt), un campo aperto di poteri in lotta tra loro, ognuno con i propri interessi, i propri sistemi di valori, e così via. Il Grande Gioco assegna alla storia un’essenza polemologica, quella su cui si è profuso a lungo Julien Freund. È vedere nell’avvicendarsi delle epoche e nella fuga dei secoli gli effetti di superficie di una ben più profonda tettonica a zolle, un sistema sempre aperto e imprevedibile. Parteggiare per il Grande Gioco significa opporsi a ogni universalismo, a ogni monoteismo valoriale, alle fantasie dei diritti dell’uomo, di produzione squisitamente occidentale ma applicati paternalisticamente (e spesso a suon di bombe) su scala planetaria. Significa avere una visione plurale della Storia, allergica a qualsiasi riduzionismo e semplificazione, ai complottismi di ieri e oggi. Riconoscere che non esiste la Storia, ma le storie; che non esiste un Uomo, ma tanti uomini; che non esistono “principi universali” ma valori posti e imposti di epoca in epoca, di civiltà in civiltà. Che non esiste il Progresso, ma tanti vettori, ognuno dei quali ascrivibile a ogni cultura, irriducibile alle altre, secondo la lezione di Herder (Idee per la filosofia della storia dell’umanità), settecentesca ma attualissima.
Uno dei pregi del libro è quello di trascinare il lettore attraverso la storia del Novecento e di fargli conoscere molti luoghi d’Europa (Russia, Polonia, Francia, Germania, etc.). Il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila diceva che «l’interesse per la storia proviene, in fondo, dalla sua natura essenzialmente antistorica». Cosa ci dà, secondo te, la vita di Bergier di innovativo per comprendere il Secolo Breve?
La vita di Bergier esibisce, a tutti gli effetti, quest’antinomia (che credo connoti un po’ tutti noi…), muovendosi però in un’ottica risolutiva. È la contrapposizione tra la storia agita storicamente e lo studio (anti)storico della storia. «Per chi esiste la storia?» si chiedeva Spengler negli anni Dieci, contrapponendo coloro che studiano la storia e coloro che la storia la fanno. I secondi, in qualche misura, si precludono l’idea di avere della storia una visione “museale” (Jünger), nella misura in cui gli altri rinunciano ad agire la storia. È il grande dramma della modernità, immortalato da Goethe nel patto stipulato tra Faust e Mefistofele: azione e/o simbolo. Spetta a noi riunire queste due dimensioni, facendo cortocircuitare l’analisi dell’interezza storica (peccato originale della nostra civiltà, da Erodoto in poi) e l’azione nella storia. D’altronde, Dávila ha scritto anche: «Le filosofie che hanno la pretesa di spiegare la storia nascono nella storia e in essa muoiono. Tali cadaveri in decomposizione sono il cibo dello storico».
Credo, tuttavia, che Bergier sia uscito da questo vicolo cieco. Lo testimonia il fatto che, delle varie fasi del secolo che si è appena chiuso, l’Amante dell’Insolito e Scriba dei Miracoli abbia provato – in alcuni casi riuscendoci, in altri meno – a diventarne protagonista e non mero “analista” (pur non rinunciando a questa seconda attività). Spesso prima degli altri, come dimostra l’attenzione, che hai ricordato prima, posta sull’energia atomica in tempi non sospetti. Un’attenzione stimolata, tra l’altro, dalla lettura della sua amata fantascienza.
«Non lo ripeterò mai abbastanza: scienza e tecnica seguono solo potere e denaro». Cosa intendeva Bergier con questa affermazione, risalente a metà degli anni Trenta? Potremmo, secondo te, utilizzarla oggi?
Senza riserva alcuna, come tra l’altro hanno dimostrato i recenti sviluppi in seno allo scoppio della cosiddetta “pandemia”. La situazione degli Stati Uniti è particolarmente interessante, da questo punto di vista. Chi vivrà vedrà. Ma chi vivrà?
Bergier fu a capo della Resistenza francese durante l’occupazione nazista, esperto di spionaggio ed esplosivi (scrisse il Manuale del perfetto sabotatore nel 1942, tradotto in trentotto lingue), poi l’arresto e la deportazione nei più atroci campi di concentramento. Eppure parlerà di queste esperienze, nonostante ci avesse quasi lasciato la vita, con una certa positività…
Bergier vide nella sua esperienza a Mauthausen una prova iniziatica – una seconda nascita, per così dire –, come emerge sia nell’autobiografia sia nella testimonianza rilasciata a Louis Pauwels e inserita ne Il mattino dei maghi. Subito dopo aver fatto ritorno in Francia – scelta che avrebbe maledetto per tutta la vita, preferendo di gran lunga la Russia –, una volta a casa, crollò sul suo letto: «Mentre stavo per addormentarmi due parole latine assalirono senza ragione la mia memoria: magna, mater. L’indomani mattina, quando mi svegliai, erano ancora nella mia mente e capii il loro senso. Nell’antica Roma i candidati al culto segreto della magna mater dovevano passare attraverso un bagno di sangue. Se sopravvivevano, nascevano una seconda volta».
Comunque e in ogni caso, quanto dici è vero: è piuttosto singolare la freddezza e il distacco con cui ne parla in Io non sono leggenda. Bergier riuscì a mantenere il sangue freddo anche tra il filo spinato, attraverso una particolarissima tecnica di sospensione del tempo che sintetizzava Alta Matematica e il Libro Egizio dei Morti, che ricordava praticamente a memoria (insieme a molti altri libri, che facevano di lui una sorta di biblioteca vivente). Ora, Bergier non cita le parti del Libro che più lo aiutarono a superare questa catabasi, ma mi piace pensare si sia silenziosamente ripetuto questa, tra le torture inferte dai suoi aguzzini: «Infinite sono le vite che io vissi, infinite le morti in cui morendo rinacqui, di forma in forma, di luce in luce, nelle vie d’in alto e nelle vie d’in basso, dall’infinito verso l’infinito. […] Mai tempo fu, in cui non fui, e mai tempo sarà, in cui cesserò di essere. Io sono l’ieri, l’oggi e il domani e il signore della rinascita. Conosco gli abissi, è il mio nome». Non solo sopravvisse alla barbarie del lager, ma continuò a svolgere la propria attività di agente segreto anche lì. Tra l’altro, oltre alla capacità di alterare il tempo, sviluppò altre facoltà, come ha ricordato Claudine Brelet: «I torturatori lo costringevano a passare ore e ore nudo nella neve. Così lui evadeva mentalmente attraverso una serie di operazioni matematiche, seguendo una tecnica di concentrazione affine a quella praticata dai tibetani, e con lo stesso risultato: i fiocchi di neve evaporavano al contatto con la sua pelle». È il “fuoco interiore” di cui ha parlato Alexandra David-Neel, capace di contrastare la temperatura esterna, generando una dimensione estatica. Ma l’antropologa prosegue: «Se Bergier si è interessato a ciò che definiamo “poteri della mente” è forse perché si è accorto, sotto tortura nei campi di concentramento, che la nostra mente è in grado di attingere a risorse usualmente sopite».
Perché l’alchimia è riuscita ad avere su di lui un così grande interesse?
Perché nell’alchimia Bergier vide una grande sintesi di Alta Scienza e Trascendenza, un’operazione sui materiali e, al contempo, sull’operatore. Un approccio allergico a ogni tipo di riduzionismo, sia quello che la vorrebbe una proto-chimica, sia quello che, pretendendo di rivelarne l’origine “mistica”, finisce per disincarnarla, svincolandola dalla materia.
A parte il discusso incontro con Fulcanelli, non bisogna però dimenticare il fatto importantissimo che Bergier non fu un mero “studioso” ma realizzò nel suo laboratorio vere e proprie trasmutazioni della materia, producendo piccole quantità d’oro partendo dal tallio, di ferro a partire dal cuoio e di berillio dal sodio. Ecco come andarono le cose. Verso il 1972, pochi anni prima di scrivere Io non sono leggenda, ricevette un pacchetto da Praga, contenente dei materiali e una lettera. Il mittente, un alchimista, gli comunicava di essere riuscito a realizzare la sostanza di cui parla Nicholas Flamel ne Il segreto della polvere di proiezione, mandandogliene un piccolo campione, assieme alla ricetta precisa per operare varie trasmutazioni. Poté così realizzarle, descrivendole in varie missive spedite al suo amico Jacques Sadoul, storico della fantascienza e dell’alchimia. Eccone un estratto, citato ne La grand art de l’alchimie: «Ho rifatto gli esperimenti, giungendo ai risultati promessi. Mi sono occupato soprattutto del berillio, il che concorda, d’altronde, con la tradizione, essendo lo smeraldo un composto del berillio; non starò nemmeno a ricordarle la Tabula smaragdina, il documento chiave dell’alchimia».
Sempre in Je ne suis pas une légende, dopo aver chiarito di essere in grado di produrre oro, Bergier afferma asetticamente di non essere convinto «che il procedimento sia realizzabile su scala industriale». In questo caso, Bergier si “censura”; per rendersene conto basta leggere quanto scrisse a Sadoul, che gli chiese se fosse intenzionato ad arricchirsi con l’alchimia: «Assolutamente no. […] La passione per la fabbricazione dell’oro è un’autentica ricerca dell’assoluto, capace di togliere stabilità anche alle menti più equilibrate. Potrei citarle un gran numero di alchimisti, attualmente deceduti, membri di varie Accademie delle Scienze: essi trascorsero la fine dei loro giorni obnubilati da ricerche di questo tipo. Sono cose troppo pericolose, da un punto di vista psicologico». Così, mantenne il silenzio su tutta la faccenda. E tornò al Grande Gioco.
Cosa ha rappresentato per lui l’incontro con Louis Pauwels e perché Il mattino dei maghi, pubblicato nel 1961 con aspettative per lo più di gloria, ha venduto invece milioni di copie in tutto il mondo?
L’incontro con Pauwels ebbe un senso molto profondo, di ordine sovra-individuale (come tutti gli incontri davvero significativi, d’altronde); mise a confronto due temperamenti molto diversi tra loro, incarnazioni di due vettori storici e meta-storici apparentemente divergenti. Bergier, comunista, scienziato, “materialista”, e Pauwels, uomo di Destra, spiritualista, discepolo di Gurdjieff. Dal loro incontro nacque l’Introduzione al realismo fantastico, come recita il sottotitolo de Il mattino dei maghi, doccia fredda somministrata a tutti quelli che ragionano in modo parziale, scambiando una parte per il tutto: i discepoli del materialismo a tutti i costi e i partigiani dei retromondi di cui parlava Nietzsche, i difensori di una scienza aliena al fantastico e di un fantastico disancorato dal reale, i progressisti e i conservatori. Inutile negarlo: Il mattino dei maghi è un libro studiato a tavolino per far incazzare un po’ tutti.
A prescindere dalla corrente a cui aderiamo, troveremo sempre pagine che ci conforteranno e altre che ci dileggeranno, mettendo a nudo i nostri tic e i nostri tabù, spingendoci a una ricerca ulteriore, dimostrandoci che la curiosità è sempre preferibile a qualsiasi ripiegamento in un sistema fatto e finito. Solo per questo andrebbe letto e riletto. Al di là di qualche inesattezza (da contestualizzare, comunque: stiamo parlando di un libro monumentale, risalente a un’epoca in cui i materiali a disposizione dei ricercatori non erano evidentemente quelli di oggi), credo sia indispensabile da un punto di vista metodologico. Ma anche etico. Niente di meglio per “decolonizzare l’immaginario”: ogni volta che vi prende la tentazione di cristallizzarvi in un pensiero o in un’area, rileggetene qualche pagina. Impossibile rimanere sordi ai suoi appelli a una Storia Aperta, a un uomo ben più ampio di quello chiuso in se stesso che domina nel pensiero moderno. La prima volta che l’ho letto, ne sono rimasto folgorato. E poco dopo ho fondato la rivista Antarès, che hai giustamente citato, basandomi proprio sul “realismo fantastico”.
Per chiudere, perché la letteratura fantastica e fantascientifica è importante per comprendere la contemporaneità?
Una domanda molto breve che richiederebbe una risposta chilometrica… Rimanendo a Jacques Bergier, è bene far riferimento all’altro libro che ho tradotto e curato, vale a dire Elogio del fantastico, uscito nel 2018 nella splendida collana I tre sedili deserti, diretta dall’amico Giuseppe Aguanno per i tipi della casa editrice palermitana il Palindromo. Vi si parla di dieci autori magici (John Buchan, Stanislaw Lem, Ivan Efremov, John W. Campbell, Arthur Machen, C. S. Lewis, Talbot Mundy, Robert E. Howard, Abraham Merritt e J. R. R. Tolkien) la cui letteratura è un termine medio tra l’uomo contemporaneo e il mondo in cui vive. Un divario profondo separa i due (aspetto già sottolineato in maniera eloquente ne Il mattino dei maghi): per superarlo, occorre elaborare una narrazione, un mito che sappia fondare il nostro vivere qui e ora. Potrebbero essere considerate idee bislacche, che però si stanno diffondendo sempre più, coinvolgendo ambiti piuttosto trasversali della cultura cosiddetta “alta”. Ti consiglio, a questo proposito, di leggere l’editoriale di Lucio Caracciolo a uno degli ultimi numeri di Limes, intitolato Il potere del Mito e dedicato al Mito di Roma (!!!), che esordisce con queste parole: «Non c’è geopolitica senza mito. E non c’è mito senza rito». Ebbene, secondo Bergier il fantastico può offrire questo tipo di narrazione, facendoci avventurare nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo spalancati dalla scienza moderna, nei silenzi siderali o in viaggi sotterranei, cullati dal ricordo di antiche civiltà (magari poi sopravvissute in qualche cupo anfratto ipogeo, stile Bulwer-Lytton) o da una memoria ancora più fondamentale e importante, quella del futuro che ci attende. E poi, è come sempre una questione d’inclinazioni individuali: per quanto mi riguarda, trovo più entusiasmante immaginare di dialogare con qualche esponente di un’antica civiltà, officiante un qualche culto solo apparentemente scomparso, o fantasticare di prendere il Sole su un pianeta dall’altra parte della galassia che celebrare – come fa il cosiddetto “realismo” – le miserie della squallida realtà in cui viviamo tutti i santi giorni.
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