Ventimila chilometri su due ruote Verso Est, un viaggio memorabile, insieme alla compagna di sempre e a una moto BMW che diventa àncora, galeone e spaccaghiaccio. Una prova di forza, per acquisire fiducia nella vita e confrontarsi con i limiti dello spazio fortificando lo spirito del tempo. Partire dalla Romagna in pieno giugno e arrivare nella capitale del Giappone quando l’estate volge al termine, attraversando l’immensità della Russia ammirando paesaggi selvaggi dove la natura è l’unico eco che rinvigorisce i sensi e le strade un ignoto profondo, ancora in grado di suscitare quel sentimento di scoperta così svanito nell’immaginario turistico contemporaneo. Una penna decisa, chiara, piacevole, un’opera che stimola il lettore a sfogliare le pagine con avidità per conoscere la meta successiva, il prossimo imprevisto sul tragitto, l’ennesimo personaggio pieno di una umanità che non ti aspetti. Nonostante la magnificenza dei luoghi che ci fa scoprire, per l’autore sembra che l’adrenalina per conoscere il mondo sia direttamente proporzionale alla crescita dell’amore per la propria terra, in contrapposizione all’abusata concezione del viaggiare d’oggi che vuol sempre esaltare ciò che è lontano e disprezzare ciò che è più prossimo. Quella di Savioli potremmo azzardare a definirla una scrittura di viaggio jüngeriana che mostra come viaggiare solo per un vacuo sentimento di muoversi porti al nulla dello spirito, e che si può attraversare la Siberia anche stando comodamente seduti a crogiolarsi sul proprio dondolo mentre si odono le onde del Mediterraneo che accompagnano l’avanzata delle pagine.
Abbiamo intervistato l’autore Valerio Savioli, buona lettura!
Come nasce la tua passione per le moto e, in particolare, per i viaggi in moto?
La passione per i viaggi in moto nasce in maniera casuale e mi permetterai un piccolo viaggio nel mio passato, per darti una risposta quanto più adeguata: entro in possesso della mia prima vera moto a 19 anni, una Honda CBR 600f. Età avanzata per gli standard romagnoli che vedono gli appassionati e caparbi manici già salire in sella alle minimoto alle età di 6 o 7 anni. Ricordo ancora i primi metri in sella a quel bolide, le prime manovre in un parcheggio chiuso per prendervi dimestichezza e i primi giri che però, per certi versi, durarono poco perché essendo in possesso solo del foglio rosa e non avendo compiuto 21 anni, tecnicamente non avrei potuto guidarla su strade aperte al traffico.
Erano anni in cui la mia testa e il mio carattere, uniti a una temperanza tipica romagnola e una predisposizione naturale a cercare (e puntualmente trovare) guai, guidavano le mie azioni. Così non feci troppo caso a certi cavilli legali e ammetto che, considerato quanto fatto, posso considerarmi veramente fortunato a poterci ridere su adesso. In barba a tutto, anche a me stesso.
L’anno e mezzo passò tra alti e bassi e i ventuno arrivarono, presi la patente e negli anni cambiai un paio di moto (BMW k1200r e KTM 1100), fin quando non conobbi Violante, la compagna della mia vita con la quale condividiamo una grande passione per i viaggi ma (ai tempi) non per le moto, a tal proposito ricordo ancora la prima volta che, per farle una sorpresa, la andai a prendere all’università di Rimini con il K1200R – moto decisamente particolare – mi portai dietro giusto un casco per lei, la quale con una mise decisamente più da giovane universitaria che da motociclista (frequentava il corso di laurea in Costume e Moda di Rimini per capirci), fu costretta ad accettar quel passaggio che in quei pochi chilometri che ci separavano da casa, la convinsero ancora di più riguardo le sue idee – ai tempi negativi – sulle due ruote.
Gli anni passarono, i viaggi con Violante pure ma la moto la usavo solo per conto mio o al massimo con qualche amico, fin quando non fui colpito dal desiderio di tornare a una carenata – avevo visto una stupenda CBR 600RR presso la concessionaria BMW/Ducati di Rimini, già mi vedevo in pista a Misano a divertirmi a fare il pataca- ma ancora una volta sono a ringraziare il saggio consiglio di mia madre, la quale spinse perché valutassi una BMW R1150R: “Quella è la moto per te, quella è la moto per VOI, la usi in città, ci puoi anche fare qualche piccolo viaggio qui nelle vicinanze, una moto che mi ha sempre dato l’idea di essere una due ruote sincera, vera e soprattutto generosa. Pensaci. Sono convinta che anche a Viola piacerebbe”.
Diedi ascolto a mia madre e oggi non posso che ammettere che ebbe ragione da vendere. L’emozione di partire per un viaggio è sempre la stessa: si presenta con forza la sera prima, prendendo a calci la notte perché l’alba arrivi quanto prima. È un’euforia che divora le tue preoccupazioni quotidiane, lasciandoti solo l’orizzonte da affrontare. Ti alleggerisce dal superfluo e ti mette nelle condizioni di aprire una parentesi, una vita nella vita. La nostra prima sortita sulle due ruote andò bene, anzi benissimo nonostante la meta fosse vicina a casa, quella fu l’occasione per gettare le basi della nostra intesa in sella che in seguito ci portò ad approfittare per ogni momento dell’anno libero per salire in moto, riscoprire il nostro territorio, le ricchezze di un paese unico nel suo genere, l’apprezzare le diverse andature e una sensazione di piccoli istanti di libertà che si materializzano quando attraversi i lunghi tunnel ocra dell’autunno mentre agogni la fuga dalla città e il ritorno a qualcosa di non detto ma già scritto sulla tua pelle, quando apri il gas per farti avvolgere dal ruggito educato della bicilindrica tedesca, quando incontrando altri motociclisti e accenni il gesto di intesa – fondamentale codice non scritto – per poi procedere verso la tua meta, che inevitabilmente rimane la strada stessa.
Fu così quindi che nacque la mia passione per i viaggi in moto, condividendola con Violante, la quale nel tempo divenne una vera ed entusiasta appassionata di quel modo di viaggiare che negli anni successivi ci portò a esplorare quasi tutt’Europa, fino a portarci dall’altra parte del mondo.

Nel libro colpisce la meticolosa preparazione al viaggio, ma cosa succede quando ti si rompe un pezzo della moto nel pieno del nulla cosmico degli Urali?
La preparazione fu meticolosa soprattutto per quel che riguarda la documentazione per l’ingresso nei vari paesi che pensavamo di attraversare, ben consci che certe rogne burocratiche possono farti perdere tempo inutile, mentre a livello prettamente meccanico, la moto fu semplicemente tagliandata, aggiungendo soltanto un baule posteriore più grande, con l’aggiunta di due piccole taniche laterali, vista l’autonomia della BMW, decisamente non adeguata alle tratte siberiane.
Il tragitto, contraddistinto molto spesso da tratti non asfaltati, sconnessi e anche peggio, mise a dura prova la BMW, che ebbe effettivamente alcuni problemi, il più grosso dei quali capitò, ovviamente, in una delle parti più remote della Russia: il cosiddetto Far East, una delle zone meno abitate se si esclude la cintura settentrionale del paese, dove ci si ruppe il cardano!
Inutile riferire gli imprechi di quel momento e di quel guasto, capitato guarda caso, l’unico giorno che decidemmo di partire nel pomeriggio, senza rispettare una delle regole che ci eravamo dati, ossia quella di partire al mattino, garantendoci così una certa autonomia di luce e di eventuali persone transitanti anche nelle aree più remote.
“Se ti dovessi trovare nei guai, alza un braccio a bordo strada… qualcuno ti aiuterà”. Queste le parole di Alexander, un amico russo. Così feci e la storia di quella notte fu indimenticabile… ma mi permetto di lasciare al lettore questo passaggio cruciale della nostra esperienza in Russia.
Quando arrivi a Irkutsk, nel cuore della Siberia, ammaliato dalla spiritualità che emanano gli edifici sacri della città, ti lasci andare a una critica feroce dell’Occidente e del suo nichilismo. Cosa stiamo perdendo secondo te?
La Russia è la perfetta cartina di tornasole della somma di due epoche che ancora in quel determinato e sterminato luogo si intrecciano: modernità laica e tradizione religiosa. Se, soprattutto, la parte moscovita è quella che più rappresenta la prosopopea, lo sfarzo e la piena materializzazione di una forma pura di capitalismo edificatosi sulle macerie del comunismo, quello che sta fuori, andando verso est è invece un panorama assai diverso, non solo sotto l’aspetto socio-economico ma anche sotto quello spirituale identitario: procedendo verso est e lasciandosi alle spalle le sfarzose megalopoli, spesso capita di trovarsi di fronte a un mondo da forti tinte conservatrici e densi richiami religiosi.
La Russia infatti, tra le tante originalità e curiosità, contiene nella sua sconfinata spazialità la maggior parte delle religioni del mondo che si manifestano in base a una precisa collocazione storico-geografica: la confessione maggiore rimane quella ortodossa, seguita da quella islamica, quella buddhista, senza menzionare le infinte minoranze da quelle cattoliche, protestanti, induiste, ma anche quelle che si potrebbero erroneamente definire pagane o neopagane come ad esempio l’Inglinismo o gli stessi Mari, per culminare col radicale movimento religioso russo dei ras’kol: i cosiddetti vecchi credenti.
Quello che si percepisce al di fuori della artificiosa e frenetica realizzazione delle realtà più capitalizzate, non è un ritorno ma piuttosto una resistenza, non uno stanco retaggio ma un’ostinata convinzione che il passaggio su questa terra abbia un senso che possa andare oltre l’arco temporale e materiale di un’esistenza e che questa venga scandita da riti e rituali ormai consolidati in un incedere quotidiano scandito dalla celebrazione eucaristica di ogni istante, da un preciso filtro di osservazione e contemplazione nei confronti della realtà in cui si è stati gettati, per citare Heidegger, dal rifiuto del caso e dall’accettazione di un destino, dalla difesa dell’oikos che è al tempo stesso cielo, casa ed ecclesia.
Andando verso est crescono a dismisura le cupole a cipolla delle chiese ortodosse, i minareti islamici ma anche gli affascinanti templi buddhisti che sorgono come funghi in mezzo alle sperdute lande desolate della Siberia, senza dimenticare le tracce ancestrali degli sciamani siberiani, gli strascichi e le striature di infiniti culti e antiche credenze capaci di sorprenderti all’angolo di una strada di città, come nel cuore della desolante taiga. Sono istanti da cogliere, ierofanie da decifrare, simboli da assorbire. È un mondo che resiste esistendo nel suo più vero essere, in netta contrapposizione con la feroce avanzata di una modernità che porta con sé i germi di un virus (questo sì), che non conosce confini che siano materiali o spirituali, destinato anch’esso ad avversare il caso, per far incetta di anime, corpi e sguardi.
Cosa stiamo perdendo? Tutto ciò che conta, tutto ciò che veramente ha un senso, tutto ciò che rallenta il tempo, ti impone di contemplarlo, a pensarti, guardandoti da fuori per non inorridire di fronte allo sfacelo che si è partorito sull’altare che ha scarificato tutto ciò che trattiene (katèchon).
È probabilmente un ciclo che si deve schiantare, con tutti i suoi incubi, per poi ripartire.

Con la tua compagna Violante avete affrontato insieme molti viaggi, cosa vi spinge ad andare sempre oltre?
La reciproca passione nei confronti del viaggio e della scoperta, l’ottima intesa forgiata negli anni ma soprattutto l’amore per la nostra terra, l’Italia, che ogni qualvolta si torna da un viaggio non può far altro che aumentare. Poi devo dire che Violante è stata la vera forza propulsiva durante tutta la traversata verso est, ho avuto la fortuna di avere una compagna di viaggio sempre positiva e propositiva, anche e soprattutto nelle occasioni più complicate.
Cos’è una frontiera?
Una frontiera esiste nella sua ambivalenza bifronte, concreta e metafisica. Concretamente è la manifestazione definitiva di tante preoccupazioni che attanagliano ogni viaggiatore, il timore delle lunghe attese, gli svariati documenti da compilare, a volte in lingue astruse e gli innumerevoli passaggi e controlli -burocrazia, cavilli e approfondite ispezioni che possono far perdere anche più di una giornata – ma anche un luogo non luogo dove ogni astante è nella medesima situazione di fronte al potere discrezionale. È proprio in queste condizioni che, svestiti di effimere certezze, è più facile incontrare l’essere umano più nudo, costruire amicizie e distruggere sogni.
Metafisicamente la frontiera è un passaggio di pagina, una perenne compagna di viaggio, un monito, un’àncora da ponderare, un’alba da aspettare e un orizzonte da gettare.
Frontiera è immergersi per toccare il fondo con la punta dei piedi per poi ripartire. La frontiera è una prova ma anche una tappa, un punto di partenza ma mai di arrivo. Quel che pare orizzontale è per converso dimensione verticale. Gli uomini, coi loro sogni caricati sulle spalle possono solo salire le scale, una frontiera dopo l’altra.
Ci sono state alcune letture che ti hanno stimolato a fare questo viaggio?
Senza dubbio “I viaggi di Jupiter” di Ted Simon, “Lo Zen e l’arte della manutenzione della moto” di Robert Pirsig, tutti i romanzi di Anthony Bourdain ma anche le letture di Dostoevskij, Bulgakov e Majakovskij ma anche i tanti lavori Paolo Nori e Marco Dambrogio col suo “Vivere d’avventura, il mio giro del mondo in moto”.

Per chiudere, perché un motociclista non è mai da solo?
Dal già accennato saluto, codificato nelle consuetudini tra motociclisti, all’obbligo morale di fermarsi per offrire assistenza a chi si trova in panne, essere motociclista significa far parte di una tribù errante e solidale. Una banalità: quando si parcheggia la moto in un baretto in un passo montano e si incontrano altri motociclisti è cosa normale salutarsi e magari discutere delle reciproche moto, della strada ecc… Insomma si è automaticamente in un contesto sociale in cui per il solo fatto di esser motociclisti, è come se ci si fosse già presentati.
Tuttora mantengo ricordi e contatti di innumerevoli episodi capitateci non solo durante i viaggi: dal nordico harleysta che in una fredda e piovosa notte norvegese in cui eravamo smarriti tra boschi e villaggi spenti, alla ricerca della nostra sistemazione, prenotata il giorno prima che avremmo però perso se avessimo sorpassato la mezzanotte, che decide di farci strada in barba a ogni severissimo limite scandinavo, fino alle porte della nostra agognata sistemazione, passando agli indimenticabili gesti di sincera e gratuita amicizia ricevuti in Scozia, dove dopo un piccolo tamponamento portammo a visionare l’avantreno della moto presso la BMW di Glasgow, per farcela riconsegnare un’ora e mezza di controlli dopo, senza che versassimo una lira perché “eravamo in vacanza a casa loro e ci saremmo dovuti divertire”, fino a tutto quello che ci è capitato in Russia, dove l’essere su due ruote ci ha regalato ricordi e momenti veramente indimenticabili.
Ecco perché il motociclista non è mai solo.
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