Appena uscito nelle librerie per Sandro Teti Editore, L’oro di Baghdad è un romanzo storico, misto ad una spy story e con descrizioni paesaggistiche degne della più alta scrittura di viaggio contemporanea. Ambientato nel 2004 tra Siria, Iraq e Peloponneso, oltre a tratti in Libano, Israele, Italia, Svizzera e Londra, il libro di Forneris si candida ad essere un cult e un testo che farà parlare di sé a lungo perché, seppur in forma romanzata, porta alla luce una delle questioni mai risolte e che hanno maggiormente influito sugli eventi geopolitici degli ultimi quindici anni: che fine ha fatto il patrimonio, immenso e colossale, di Saddam Hussein?
L’autore ci riporta in quegli anni facendoci rivivere i paesi menzionati con un’approfondita ricerca storica e politica. Molti dei personaggi sono reali ma le loro azioni sono romanzate, seppur molto vicine a ciò che probabilmente hanno fatto nella realtà. Una scrittura rapida, colta, vorace, una penna che tiene il lettore sulla pagina fino alla chiusura delle palpebre. Una storia che ci dà una nuova chiave di lettura su ciò che è avvenuto in Medio Oriente negli ultimi ultimi lustri, le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti noi: terrorismo, immigrazione, guerre e, soprattutto,
il conflitto siriano, che attanaglia uno dei paesi più belli del mondo da ormai otto lunghi anni. Ma anche un occhio critico sia nei confronti della finanza internazionale, che spesso non si crea alcun problema a tutelare patrimoni sospetti da parte di uomini che si sono arricchiti spudoratamente
sulla pelle dei propri popoli, che nei confronti dell’arroganza imperialista a stelle e strisce la quale, con la solita manfrina dell’esportazione della democrazia, non si pone alcuna preoccupazione a destabilizzare intere aree del mondo al fine di impossessarsi delle loro risorse. Un libro
straordinario e una lettura eccezionale, non appena lo terminerete vi renderete conto che David Faure, il protagonista del romanzo, farà per sempre parte di voi.
Abbiamo intervistato l’autore Marco Forneris per saperne di più:
D.: Sig. Forneris innanzitutto complimenti per il libro e grazie di essere qui. Come nasce l’idea di scrivere un’opera su un argomento così vasto e delicato, e come ha svolto la ricerca delle fonti?
R.: Ho da sempre una passione per la storia, a partire dall’antichità per finire ai giorni nostri. La mia personale hit-parade vede prima la storia greco-romana, poi quella inglese dell’alto medioevo e infine quella del medio oriente, ultima entry. Leggere però non mi basta, spesso voglio ripercorrere le strade che portano ai luoghi dove alcuni eventi sono accaduti, fiutare l’aria e far volare il pensiero nel passato. Se leggi di Delfi, ad esempio, capirai che era un luogo mistico. Se vai a Delfi, capirai il perché.
L’Oro di Baghdad è il seguito logico del mio primo romanzo, Il Nodo di Seta, che si chiudeva con la tragedia delle Twin Towers. Prima ancora di pubblicare il Nodo, avevo pensato al nuovo romanzo con l’idea di farlo ripartire alcuni anni dopo e in un paese che mi ha sempre affascinato, la Siria. Forse sarà stata la tristezza per i fatti che stavano accadendo, forse un omaggio ai luoghi e alle persone che ero ancora riuscito a vedere e conoscere nel febbraio del 2011, pochi giorni prima che scoppiasse il caos, ma mi sembrava il posto giusto dove ambientare il mio nuovo libro.
Veniamo alle fonti: per me sono l’alfabeto necessario per capire la lingua della storia, ma è solo la lettura comparata e accompagnata dalla rivisitazione personale che ti aiuta a comprendere veramente.
Per l’Oro di Baghdad ho fatto riferimento a molte letture, circa 250 diversi documenti, alle analisi di analisti esperti come Shmuel Bar e Vitalij Naumkin, agli articoli di giornalisti e scrittori come Alberto Negri, che mi ha onorato con la sua prefazione, ma per rendere l’atmosfera le fonti più importanti sono state i miei viaggi in quelle terre.
D.: Nelle note finali mi ha colpito questa frase: la sostanza storica deve essere solida, mentre al dettaglio è concesso una certa liberà, cosa intende più nello specifico?
R.: Nello specifico voglio dire che scrivendo libri come questo, così vicino temporalmente non solo alla storia ma anche alla cronaca, non si può prendere in giro il lettore ma bisogna attenersi ad una seria ricostruzione degli eventi, e in questo caso anche al carattere dei personaggi, almeno di quelli di pubblica rilevanza. Tuttavia, nelle pieghe della storia c’è abbastanza spazio per costruire vicende di fantasia che pur mantenendosi coerenti con la realtà se ne discostino a sufficienza per dar vita a una trama coinvolgente. C’è da dire che nella lunga e tragica vicenda che il medio oriente vive ormai da decenni c’è materiale per parecchi romanzi, ma in quelli già usciti raramente ho visto una ricerca accurata dei fatti e in molti c’è pure tanta propaganda. Insomma, come si suol dire, è “tanta roba” da cui pescare, ma con giusti mezzi e migliori fini.
D.: L’anno in cui è ambientato il libro, il 2004, oggi risulta essere stato un anno cruciale per il destino geopolitico globale: la caduta di Saddam, la destabilizzazione irachena e la ricostruzione fallace del paese ad opera degli americani, i primi focolai di guerra in Siria e le crescenti tensioni tra sunniti e sciiti. Quanto la pretesa di appropriarsi del patrimonio di Saddam, L’oro di Baghdad, ha influito nelle scelte militari dei paesi coinvolti?
R.: Poco o nulla, pur trattandosi di un grande valore era poca cosa se confrontato con un altro tesoro: le riserve petrolifere dell’Iraq (5° al mondo, appena dietro l’Iran; per inciso, primo per riserve è il Venezuela…) unite al bassissimo costo di estrazione. Più rilevante era la lista dei corrotti nell’operazione Oil for Food, che non comprendeva solo il figlio di Kofi Annan ma anche mediatori e politici di tutti i paesi del mondo. Una motivazione non diversa da quella che avrebbe portato Francia e Gran Bretagna a rovesciare Gheddafi: petrolio e liste di contributi imbarazzanti per i politici.
D.: Uno dei personaggi del libro, i cui interventi sono pochi ma determinanti, è proprio ilPresidente Siriano Bashar al-Assad. Dai dialoghi traspare una persona di un’intelligenza sopraffina, dotata di un’innata capacità di ascolto senza mai perdere il senno della ragione, in grado di prevedere lo scacchiere geopolitico dell’immediato futuro, un uomo che trasmette sicurezza più che timore. Dopo otto anni di conflitto, secondo lei, com’è percepita la figura di Assad dal popolo siriano e come invece ce la trasmettono i media mainstream occidentali?
R.: Vorrei essere chiaro: Bashar è un dittatore, come era suo padre e come sono la maggior parte dei despoti a capo delle nazioni medio orientali. I suoi modi sono diversi da quelli brutali del padre, Hafez, anche perché non essendo destinato a succedergli ha avuto una educazione di stampo occidentale. La sua ascesa al potere, dopo la morte del padre e del fratello maggiore Basil, è conseguente alla mancanza di alternative credibili, e nei primi anni di mandato è stato accreditato di una volontà riformatrice, vista anche positivamente dal mondo occidentale. Tutto è cambiato dopo la guerra irachena del 2003, quando sono scattate le prime sanzioni americane e la vecchia guardia di Hafez ha blindato con la forza il potere, arrivando poi alle repressioni che sono state concausa della insurrezione siriana (molto eterodiretta). Tuttavia, insieme agli aspetti negativi, occorre considerare altri fattori: la Siria è di gran lunga la nazione meno integralista del MO, ha una costituzione laica (solo il presidente deve essere musulmano, ma c’è una effettiva libertà di culto), le riforme sociali hanno dato buoni risultati pur in un contesto di paese povero. Bashar inoltre si è rivelato più forte e più intelligente di quanto si pensasse inizialmente, coagulando intorno alla sua figura un vasto consenso fra le varie componenti sociali e religiose. Non è pensabile infatti che di fronte all’aggressione subita dall’ISIS (ma non solo…) un presidente impopolare avrebbe potuto rimanere in sella. A quel che ne so, Bashar in Siria è visto dalla maggioranza della popolazione come simbolo dell’unità nazionale ed è molto più benvoluto e appoggiato che in passato, anche perché l’alternativa sarebbe il potere ai tagliagole. Fanno eccezione i Curdi, che tuttavia stanno forzatamente rivalutando la loro posizione. Quanto ai media occidentali, hanno praticato una disinformazione massiva, con rare eccezioni da parte di giornalisti indipendenti. La domanda da farsi è: perché non c’è stato un analogo attacco mediatico a Mohammed bin Salman e all’Arabia Saudita, anche dopo la riduzione in salsicce di un noto giornalista e le stragi in Yemen? Non mi risulta che MbS sia stato messo al bando, anzi. Forse la ragione va ricercata nei legami economici, o no?
D.: Nel capitolo ambientato nel Peloponneso emerge una penna che ammalia per la descrizione del paesaggio e le sfumature della culturale locale, il romanzo storico diventa quasi letteratura di viaggio e con essa si amalgama e si confonde. Qual è secondo lei il confine, se esiste, tra i due generi, e come fa a entrare Paddy, al secolo Patrick Leigh Fermor uno dei più grandi scrittori di viaggio del novecento morto nel 2011, all’interno della sua opera?
R.: La risposta è quasi banale e la motivazione legata al caso: “Paddy” Fermor era un mio vicino di casa, in Grecia. Ma era anche un grande amico di Chatwin (le cui ceneri sono state disperse di fronte alla chiesa di Exachori, a poca distanza da Kardamyli), uno straordinario scrittore di viaggi, un agente della OSS inglese durante la seconda guerra mondiale, un eroe di guerra a Creta, un seduttore seriale, con un fisico da paura (traversata a nuoto del Bosforo a settant’anni!). Ingredienti perfetti per il mio libro, che vuole descrivere non solo i fatti ma anche i posti affascinanti in cui si svolgono.

D.: Servizi segreti di mezzo mondo, grandi banche d’affari, società di consulenza informatica, veri e propri temi che ripercorrono la più classica letteratura da spy story. Quanto influiscono questi agenti nelle decisioni geopolitiche del pianeta?
R.: Non sono grandi influencer, al più mosche cocchiere. Rappresentano invece utili strumenti per la politica, che a sua volta è un utilissimo paravento per i grandi poteri economici. Da sempre, per capire le ragioni di una guerra vale il detto: “follow the money”. La guerra a bassa intensità che imperversa nel medio oriente ne è la prova provata.
D.: Per chiudere, una domanda meno legata al libro e più all’autore: lei si è laureato in informatica nel 1974, è stato responsabile IT di alcune delle più grandi aziende italiane e oggi lavora come advisor nel private equity. Come fa a conciliare la sua esperienza di manager tecnologico e investitore con il mestiere di scrittore di romanzi storici?
R.: Ha mai letto Marcuse? Ho sempre sperato di non diventare un uomo ad una sola dimensione e quindi ho cercato di coltivare molti interessi: la storia è uno di questi, ma non l’unico. Certo, a volte è faticoso, ma tanta lettura (prima) e un po’ di scrittura (poi) sono importanti per non rimanere fagocitati dalla nostra professione. In generale, quel po’ di cultura che ne deriva aiuta ad avere un visione laterale dei problemi, e quindi ad affrontarli con maggiore efficacia. Come conciliare lavoro e scrittura? Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiamento è che si dorme un po’ meno…il che libera tempo prezioso.
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[…] 2004 tra Iraq, Siria e Grecia e che ha avuto un grande risalto sia nella critica che nei lettori, qui l’intervista al suo libro. Laureato in informatica nel 1974, è stato responsabile IT di […]