Federico Mosso, scrittore piemontese classe 1981, ha scritto per GOG Edizioni “Il Club degli Insonni”, un libro strabiliante, dotto e profondo. Diciannove racconti, diciannove storie di personaggi emblematici spesso rimasti rilegati nelle pieghe della storia. Mosso li ha dissotterrati, approfondendone le vite, gli eventi ed i contesti in cui erano inseriti. Spazia nei secoli ed attraversa il globo intero, facendoci rivivere le brutalità del passato e l’adrenalina del genio, la depravazione dell’infimo e l’estro dei visionari. Un libro totale e a tratti crudele, un’opera adatta a chi ama conoscere il mondo in cui viviamo e gli uomini che ci hanno preceduto. Il tutto condito da una scrittura elettrizzante ed un vocabolario smisurato sempre in grado di tenere il lettore su una graticola effervescente. Last but not least un lavoro di ricerca certosino e diligente che dà all’opera stabilità e forza. Compratelo, divoratelo ed arricchitevi. Noi nel mentre lo abbiamo intervistato.
D.: Ciao Federico, grazie per essere qui. Nel tuo libro la cosa che risalta subito durante la lettura è l’incredibile quantità di personaggi della storia che hai tirato fuori. Qual è il filo conduttore che lega personaggi così diversi tra loro come un colonizzatore depravato del Cinquecento, un aviatore pioniere come Keller, un truffatore che vende la Tour Eiffel, una star del cinema come Bela Lugosi e la taumaturgia di Rasputin?
R.: Ciao a voi, e grazie mille per questa interessante chiacchierata. Se vogliamo trovare un fil rouge che leghi i tanti personaggi raccontati nel mio Il Club degli Insonni possiamo identificarlo con la parola straordinarietà. Ecco, la straordinarietà di esistenze fuori dal comune, nel bene e nel male. La mia raccolta di racconti storici e biografie di uomini e donne è un pot-pourri narrativo, un caleidoscopio di memorie, avventure, disavventure, disastri, tragedie e anche orrori, spesso dimenticati e celati in angoli bui del passato. Volutamente ogni capitolo è una storia a sé. Buoni e cattivi, personaggi simpatici e grandi infami raccontano al lettore la loro eccentrica esperienza terrena, la loro vita che si è consumata come in un romanzo; fiamme di candele che arsero di luce impazzita. Ma attenzione, non sono personaggi inventati dalla fantasia, loro hanno vissuto per davvero: la Storia dell’uomo spesso supera la fantasia del romanziere come originalità, bizzarria, scene grottesche, pazzia. Questa eterogeneità dei vari protagonisti del libro, si rispecchia anche nello stile narrativo, o meglio, nei tanti stili narrativi sperimentati con la penna veloce indemoniata posseduta. Si sorride, ci si stupisce, si rimane basiti, ci si inquieta, ci si spaventa: alcuni racconti hanno un tono ironico e divertito perché narrano uomini eccentrici e positivi nella loro esaltazione terrena, altri capitoli possiedono invece un linguaggio notturno, allucinato, demoniaco perché narrano di diavoli incarnati. Il Club degli Insonni è dunque una raccolta di racconti molto diversi tra loro; è un condensato di biografie e viaggi nel passato poco conosciuto, come fosse una minuscola libreria tascabile composta da diciannove testi differenti: diciannove storie, diciannove viaggi. Rasputin, Bela Lugosi, il grande cialtrone Ponzi, Lope de Aguirre “Il furore di Dio”, Guido Keller cavalier delle nuvole, la spia Mata Hari, il barone Roman von Ungern-Sternberg, l’uomo che volle farsi Khan … eccoli, tutti assieme, così diversi, così unici, inseguiti e tormentati dai propri demoni, nella stessa sala da gioco con la morte come croupier al tavolo della roulette: è Il Club degli Insonni.
D.: Porti alla luce due storie di dittature feroci del ‘900 di cui raramente si trova traccia nei nostri libri di storia, quella di Haiti e quella delle Isole Comore in Africa: da cosa deriva questa tua passione per, come le chiami nel libro, le dittature di serie B?
R.: Domanda molto interessante. Mi piace molto indagare – e quindi viaggiare con la mente – verso lidi poco battuti con rotte ignote. Viaggiare nella periferia della Storia, nei sobborghi in penombra ai margini dei grandi eventi dell’uomo. E in questi angoli si scoprono dei personaggi minori incredibili. Si conoscono gli abitanti di eventi putridi e dimenticati: i tanti piccoli Frankenstein che hanno lasciato il segno in una regione molto limitata geograficamente ma in modo profondo, affondando il coltello in quella terra e nei suoi popoli. In queste periferie storiche – spine aguzze cresciute dal tronco principale dell’esperienza umana nel pianeta Mondo – si trova una teatralità irresistibile, shakespeariana o conradiana: pièce teatrali con personaggi grotteschi, demoniaci, psicopatici. Demoni minori, i “poveri” diavoli cresciuti e ingrassati nel Terzo e Quarto Mondo, ma non per questo meno crudeli, fanatici e avidi rispetto ai loro colleghi più celebri. Nella gerarchia degli inferi, nella piramide rivolta verso l’abisso e non verso il cielo, dopo il vertice all’ingiù occupato dai soliti noti del Novecento, ci appare una nutrita cerchia di tiranni secondari delle dittature di serie B. Esempi: il Signore di Tutte le Bestie della Terra e dei Pesci del Mare e Conquistatore dell’Impero britannico, ovvero Idi Amin Dada; l’imperatore Bokassa, Napoleone centrafricano; Horloogijn Čojbalsan, “lo Stalin di Mongolia”; e François Duvalier, alias Papa Doc, artefice della psicotirannia voodoo di Haiti. Papa Doc, il Baron Samedi è uno dei personaggi del mio libro: la lunga vicenda haitiana di cui lui è protagonista è un’allucinazione storica provocata da un intruglio velenoso di voodoo, machete insanguinati, spiriti della foresta, invocazioni in stati di trance, intrighi di palazzo, paranoia, potere assoluto, incubi. Quando la politica si mischia con la superstizione: dittatura tropicale grondante sudore da febbre e sangue. Ed ecco il mio interesse per il delirio di potere, talvolta grottesco, talvolta tragicomico, talvolta horror: tiranni da operetta, micro-totalitarismi straccioni, inferni mignon, pozze malariche della Storia. Immaginiamo di intendere la materia Storia come una città. I quartieri sono le epoche. Ogni epoca ha i suoi palazzi che rappresentano i secoli. Nel Quartiere Contemporaneo troviamo Palazzo Novecento. Entriamo. Nella sale principali troviamo i grandi eventi, le guerre mondiali, la Rivoluzione d’ottobre, i grandi totalitarismi, la guerra fredda nel suo complesso … Nelle stanze più illuminate conosciamo i fatti importanti direttamente conseguenti ai grandi eventi, con i loro protagonisti– che so – il crollo del ’29, l’Anschluss austro-tedesca del ’38, la Cuba di Castro, la guerra del Vietnam, il boom economico italiano, le guerre arabo-israeliane, il terrorismo internazionale e migliaia di altre cose. E poi ci avventuriamo negli angoli più nascosti del solaio e della cantina del Palazzo Novecento, e ci facciamo luce con un lume di candela per scoprire nuovi fatti e uomini, minori e al buio, dimenticati, e vediamo ritratti di eroi e quadri di belle avventure, ma tra fatti gloriosi e cavalieri coraggiosi ci imbattiamo anche in ragni immondi e topi carnivori.
D.: La storia più importante, nonché il personaggio più famoso ed il racconto più lungo del libro, è quella di Benvenuto Cellini, artista sublime del Cinquecento fiorentino, di cui metti in evidenza anche il lato sanguinario e violento. Diceva Ernst Jünger ne “Il trattato del ribelle” che il crimine rappresenta la seconda via che si può percorrere per conservare la sovranità in mezzo al disfacimento, allo sgretolamento nichilistico dell’essere. Pensi che possa affinarsi al Cellini questo passo?
R.: “Il trattato del ribelle” di Jünger è un’opera importantissima, da diffondere tra tutti i meritevoli e gli uomini liberi. Fu scritto agli inizi degli anni ’50 ma direi che li porta bene: la sua genialità attraversa gli anni, nazioni e società. È immortale. Le sue parole avevano una valenza in piena guerra fredda con parte del mondo sotto il Patto di Varsavia e maggior parte del resto sotto l’influenza capitalistica americana, e le sue parole hanno valenza oggi con questa grigia ombra intangibile, omologatrice, globalizzante, consumistica, ipocrita, avida, tecnologica che incombe sopra le teste di tutti gli uomini. La censura e la schiavitù di anime e menti sono pericoli attuali, che spesso non vengono avvertiti perché – Dio mio – sono dannatamente striscianti e subdoli. Ma non divaghiamo, parliamo piuttosto di quel teppista di Benvenuto Cellini. Genio maledetto, scalpello divino, puttaniere impenitente, rissoso, stupratore, arrogante artistar del Cinquecento italiano. Un ceffo, un mascalzone baciato da Dio, come il suo collega Caravaggio, altro bel farabutto nazionale creatore di bellezza eterna. Cellini, con le sue opere, con le sue bischerate, i suoi amori violenti, i duelli e i suoi omicidi è un eccezionale testimone di quel secolo superbo che è il Cinquecento italiano: signorie in armi, invasioni, odi dinastici, grandi ricchezze e bellezze artistiche, passioni, cappa e spada. Ansimi d’alcova, arte sublime, lame sguainate: magnifico. Un secolo di esaltazione punzecchiata dalla punta della spada. Il collegamento con Jünger e con quanto hai evidenziato tu nella domanda è sì affascinante, ma bisogna procedere con cautela a mio avviso, perlomeno del caso di Cellini. Il crimine rappresenta la seconda via che si può percorrere: ecco, questa affermazione a mio modesto parere implica una consapevolezza. In un mondo di grigio, di piccineria, di tirannide il ribelle compie la sua scelta estrema di ribellione: meglio criminale che borghese. Però ecco c’è una scelta consapevole. Per Cellini non c’è scelta, nel senso che Cellini nasce così, con il sangue caldo, con la rabbia furiosa che s’accende come un fiammifero sfregato, con la superbia innata. Ciò si evince da La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, o più semplicemente Vita che è la sua autobiografia, molto autocelebrativa a dire il vero, ma che rimane un’opera eccezionale non solo per studiare la vita dell’artista ma per cogliere le atmosfere storiche, culturali e sociali del secolo XVI. L’autobiografia dell’orafo è zeppa e zuppa di botte da orbi, di ferite mortali da pugnale, di passioni carnali illecite. Va matto per quelle cose e guai a lanciargli un’occhiata di troppo o sbagliare battuta in sua presenza: il confronto fisico è assicurato. Ecco, ma tutta questa foga e voglia di ultraviolenza alla Arancia Meccanica d’antan è proprio intrinseca a lui; è fatto così, impulsivo d’azione. Non c’è ribellione bensì solo assecondamento dell’istinto bestiale umano. Per conservare la sovranità in mezzo al disfacimento, allo sgretolamento nichilistico dell’essere: Benvenuto Cellini conserva sì la propria sovranità dell’anima nera, ma al contempo si abbandona al suo stesso sgretolamento nichilistico dell’essere. Nichilismo celliniano: Benvenuto adora Cellini; lui stesso è il suo dio; l’artista vive, crea, ama, odia per autocompiacersi. Il resto conta poco. Il trionfo delle vanità e individualismo radicale. Benvenuto, compagno drugo.
D.: Il tuo è un libro di narrativa storica ma anche di letteratura di viaggio, perché trascini il lettore a conoscere luoghi che difficilmente visiterebbe nella vita e glieli fai assaporare facendolo rimanere comodamente sulla propria poltrona. Quali sono gli autori che più ti hanno influenzato e spinto a scrivere su questi temi?
R.: Il viaggio. Dio, che bella parola. È potente ed è ricca di valenze, significati, possibilità. In un mio testo dedicato all’enigmatico quadro L’Isola dei morti di Arnold Böcklin, scrissi: “Il viaggio. Viaggiare può salvarti la vita, anche se il viaggio è solo immaginario. Viaggiare può condurti verso la follia, anche se il viaggio è solo fantasia. La macchina del tempo si costruisce con l’immaginazione e il suo infinito assoluto. Mondi nuovi nella mente, universi vergini della fantasia. La combinazione potente della realtà passata, ovvero l’eredità millenaria di Nostra Signora Storia con la capacità di sognare e rendere il sogno vivo, permette la navigazione nello ieri, che riprende vita oggi, nella scrittura. Echi dal passato, amalgamati in sequenze di lettere e punteggiatura, trasportano chi scrive, ovunque lui voglia. Ovunque. Viaggio immaginario, viaggio visionario, viaggio ideale.”
Per me dunque il significato del termine viaggio può assumere forme diverse. Mi muovo fisicamente appena posso verso luoghi da visitare, ma mi muovo anche in poltrona o alla scrivania, leggendo un libro o scrivendo. La letteratura di viaggio è un genere davvero affascinante. Voglio citare alcuni testi ed autori che mi hanno influenzato non solo per la stesura de Il Club degli Insonni ma nella vita tutta. Sicuramente l’introvabile Bazar Express – in treno attraverso l’Asia di Paul Theroux, donatomi da mio papà venticinque anni fa. Quel libro è un mio culto personale. In Asia e Pelle di leopardo di Tiziano Terzani sono testi che amo e che rileggo volentieri. Imperium di Ryszard Kapuscinski mi ha acceso una forte passione per l’Est. Beresina – In sidecar con Napoleone di Sylvain Tesson è un breve magnifico arguto mix tra viaggio, avventura, grande Storia. Costantinopoli, scritto da Edmondo De Amicis nel 1875, è una bellissima opera ricca di pagine esotiche che profumano di un Oriente ancora distante e misterioso. Bestie, uomini, dei. Il mistero del re del mondo del polacco Ferdinand A. Ossendowski che annovero come un reportage di viaggio unico nel suo genere perché è un’avventurosa esplorazione dell’arcano tra Siberia, Mongolia, Transbajkalia, Tibet, Manciuria, Cina.
Ritorno ancora un’ultima volta sul significato della dolce parola “viaggio” perché in un’altra occasione scrissi: “Voglio dare al concetto del viaggio una sua propria dimensione onirica; è l’immersione di mente e corpo e spirito nella scoperta di quello che è diverso dal nostro cerchio, al pari di un sogno euforizzante che non dovrebbe finire mai; è nuotare in altri colori alla ricerca di cose che mai si sono viste o conosciute se non nelle pagine dei libri; è l’esplorazione dell’esotico vicino e lontano, condizione che ahinoi si muove inesorabile nella sua fase di estinzione per causa dell’asfissia globale ed omologatrice, un nulla culturale camuffato da falsa uguaglianza che minaccia differenze, tradizioni, popoli. Viaggiare per osservare, viaggiare per imparare, viaggiare per vivere: nutrimento dell’anima. È oppio fisiologico, fornito dal nostro stesso corpo itinerante, benefico; sì, oppio bianco, intangibile, ideale, interiore, non droga velenosa, ma qui la condizione inebriante del cammino. Viaggiare fa bene.”
Sì viaggiare fa bene, ti salva la vita.
D.: Dei diciannove racconti e personaggi, su quale avresti voluto scrivere un romanzo di trecento pagine (Ungern non vale)?
R.: Ungern, e basta. No scherzo, a parte il furioso barone dio della guerra, Cuore di Tenebra delle steppe che per mio malgrado è diventato una vera e propria ossessione, avrei voluto scrivere un romanzo ispirandomi alla vita dell’avventuriero venezuelano Rafael de Nogales Méndez, un tipo incredibile che finì a combattere a fianco del decrepito Impero Ottomano durante il primo conflitto mondiale. Rafael de Nogales … “avventuriero, soldato del Mondo, viaggiatore senza sosta. Dopo grandi avventure, viaggi, battaglie in lungo e in largo, dopo il battesimo del fuoco a Cuba con gli spagnoli contro gli americani, dopo Haiti, dopo aver servito nell’esercito del sultano marocchino della dinastia alawide Mulay ʿAbd al-ʿAzīz, dopo aver peregrinato tra Africa nera, Asia centrale, India, Indonesia, Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti, dopo esser tornato in Venezuela e aver partecipato al tentativo di rovesciamento del dittatore Cipriano Castro, dopo aver vagato in Centro America Honduras – Guatemala – Nicaragua – Messico, dopo aver passato la frontiera statunitense e aver commerciato in bestiame tra l’Arizona e il Nevada, dopo essersi imbarcato a San Francisco per la Cina, dopo esser stato spia doppiogiochista nel conflitto russo-giapponese del 1905, dopo aver trafficato a Shanghai, dopo esser stato arruolato come agente segreto per i governi di Giappone e Corea a Pechino, dopo aver viaggiato nelle terre selvagge di Siberia, dopo aver navigato sullo stretto di Bering e aver raggiunto l’impervia Alaska, dopo aver vissuto con gli eschimesi per due anni a caccia di balene, dopo esser tornato negli Stati Uniti a fare il cercatore d’oro in California, dopo aver fatto il cowboy in Texas al confine con il Messico in compagnia di “vaccari per tradizione, minatori per necessità e avventurieri per nascita”, dopo esser rientrato nella patria sudamericana ed essersi procurato nuovi nemici come il presidente Juan Vicente Gómez che combatte per quattro anni di fila con una guerriglia andina di indios ribelli, rivoluzionari arrabbiati, sovversivi indomiti, decide di raggiungere l’Europa e di menar le mani in quel gran carnaio della Grande Guerra, cataclisma umano davvero troppo invitante per un uomo così intrepido ardimentoso esagitato. Si ritrova tra i perdenti, naturalmente.” Rafael de Nogales, l’uomo che non stava mai fermo.
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