Scrittore eritreo classe 1970, Daniel Wedi Korbaria vive in Italia dalla metà degli anni novanta. Si è occupato a lungo di teatro e negli ultimi anni ha collaborato con molte riviste scrivendo articoli, saggi e inchieste con focus principalmente sul tema immigrazione. Panafricanista e non allineato all’ideologia dominante, fortemente critico nei confronti delle Ong e grande amante della sua cultura, Daniel è una voce erudita e fuori dal coro, che merita di essere ascoltata attentamente per la profondità dei suoi discorsi e per la sua testimonianza di grande uomo di cultura africana. Mother Eritrea è il suo primo libro, scritto nel 2019 ed edito dalla casa editrice toscana La Vela. Un romanzo che è un viaggio nella Asmara degli anni settanta, ancora sotto l’occupazione dell’Etiopia, per rivivere la quotidianità di una famiglia poverissima, dei loro luoghi, delle loro speranze, della loro umanità, della loro fede. Un romanzo che è microstoria pura, una lettura per comprendere dinamiche che troppo spesso tendiamo ad omologare, per pigrizia o necessità, dietro la sola parola Africa. Ma il continente nero è immenso e ogni luogo ha la sua peculiarità, la sua storia, la sua lingua, la sua religione, la sua gente. Un libro straordinario, commovente, che induce alla riflessione sul valore della vita, sul valore di ogni vita. Un lavoro che mette in evidenza, una volta di più, come non è la ricchezza di una Nazione a determinare la felicità di un popolo, ma sono i rapporti tra le sue genti e l’alimentazione delle sue tradizioni, che si tramutano di generazione in generazione, a creare la vita e dare luce alla speranza. Tra l’antropologico e il neorealismo, decisamente una delle migliori letture sull’Africa mai affrontate.
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FOTOGRAFIE di Massimo Bicciato https://massimobicciato.com/
Asmara anni settanta, i torrserawit (i soldati etiopici) impongono il coprifuoco alla popolazione locale. L’occupazione dell’Eritrea, in pochi decenni, è passata da quella italiana a quella etiope. Come ha fatto il tuo popolo ad andare avanti in una guerra massacrante, che è durata più di trent’anni, e raggiungere nel 1991 l’Indipendenza? Cosa vi ha tenuto uniti?
Negli anni cinquanta molte colonie vennero riconosciute Nazioni indipendenti, l’unica a non aver avuto questa opportunità è stata l’Eritrea. Questa fu un’ingiustizia inflittaci dalle Nazioni Unite poiché, dall’altra parte, l’Etiopia del Negus Haile Sellassie godeva dell’alleanza di ferro con Washington e Londra. A noi eritrei, per conquistare la nostra Indipendenza, non restò altro che la lotta armata. Così, in ogni famiglia eritrea c’era qualcuno che combatteva al fronte: padri, madri, fratelli, sorelle, zii, uomini e donne, giovani e anziani, cristiani e musulmani, una lotta dove circa 60.000 giovani persero la vita, e tutti con un unico obiettivo: liberare l’Eritrea dai torrserawit. Ciò che ci ha unito è stato proprio questo fortissimo desiderio di autodeterminazione per la nascita di una Nazione chiamata Eritrea.

La minuziosa descrizione di Asmara è ammaliante per il lettore. Un’immersione totale nella vita di ogni giorno di uno dei posti più poveri del mondo. Eppure viene fuori un’umanità rara da trovare nei posti ricchi e occidentalizzati. Quanto influisce la spiritualità e la fede nei legami del popolo eritreo?
Da sempre cristiani e musulmani, che hanno combattuto insieme per l’Indipendenza, convivono pacificamente e in armonia. Ad Asmara, la mia città, tutti i giorni all’alba si possono sentire i canti provenienti dalle chiese copte, al tramonto invece il richiamo del muezzin si fonde col suono delle campane della Cattedrale per la messa serale. Durante i giorni di festa come il Natale o il Ramadan, gli eritrei si fanno reciprocamente gli auguri visitando le rispettive case con una torta in mano.
Di sicuro bisognerà sempre vigilare affinché nessun tipo di estremismo religioso si infiltri a minacciare questa armonia, soprattutto quelli che predicano divisioni di tipo etnico-religioso. In gran parte del Continente africano c’è infatti una preoccupante diffusione di nuove pseudo religioni di predicatori molto social che mettono altra legna sul fuoco dei perenni conflitti inter-etnici e delle divisioni tribali facendo sì che spesso sfocino in veri e propri massacri. Io rimango scettico sull’utilità di importare queste “religioni” poiché non faranno altro che creare, come peraltro sta già avvenendo, altre inutili e drammatiche divisioni. Ma temo che queste divisioni facciano parte delle armi del neo colonialismo.

Mother Eritrea è la madre dei due ragazzini personaggi del romanzo. La sua figura sfiora il mitologico e amalgama il dramma, l’amore e la religione. Una figura che irradia eternità e alterna gli stati d’animo più profondi della condizione sia di madre che di donna. A distanza di quarant’anni, l’epoca in cui è ambientato il romanzo, com’è la condizione della donna in Eritrea?
Al tempo in cui Mother Eritrea era bambina le condizioni di vita delle donne in Eritrea era quella di animali da lavoro, divise tra le mura domestiche e i campi, a raccogliere legname e fornire l’acqua del fabbisogno giornaliero. Lavori pesanti al limite della schiavitù. Erano analfabete e senza diritti, neppure quello di essere proprietarie dei loro terreni. A peggiorare le condizioni delle donne vennero i torrserawit etiopici brutali e violenti, come viene ampiamente descritto nella storia. Ed è stato proprio per ribellarsi a queste violenze che molte ragazze scelsero di unirsi alla lotta armata di Liberazione. Volevano un Paese fondato sull’egualitarismo tra uomo e donna.
Quelle donne hanno combattuto e dato la loro vita per costruire l’Eritrea ed oggi, dopo appena un quarto di secolo, ci sono ministri e ambasciatori donne, insegnanti, dottoresse, ingegnere, altre che guidano i taxi, gli autobus o i macchinari per le costruzioni, donne pilota d’aereo e tutte, come gli uomini, fanno il servizio militare. In Eritrea non esiste il femminicidio né la violenza di genere. Le donne eritree possono passeggiare tranquille la sera.
Nel romanzo descrivo una drammatica scena sull’infibulazione. Ecco, questa barbara usanza che per decenni veniva praticata in tutto il Corno d’Africa è diventata fuori legge in Eritrea nel 2007 e, aggiungo, chiunque si erga a difesa dei diritti umani sulle donne dovrebbe inchinarsi davanti a tale risultato.

Quanto è autobiografico il tuo libro e cosa ti ha spinto a lasciarci questa splendida testimonianza del tuo paese?
Questo non è un romanzo autobiografico ma come tante storie prende spunto da esperienze personali. Tanti personaggi sono inventati di sana pianta e altri sono ispirati a persone che ho conosciuto in passato. Io non ho fatto altro che stendere un telo e proiettare, come in un documentario, tutta la storia della lotta di Liberazione e gli anni dell’ascesa e della fuga del famigerato Colonnello Menghistu Hailemariam. E visto che è un romanzo tutta la vicenda viene narrata attraverso la voce di un bambino, Yonas il protagonista, un Tom Sawyer africano ma con la pancia vuota, che assieme al suo fratellino è perennemente a caccia di cibo. Ho scelto di raccontare le peripezie di una famiglia “particolare”, quella di una donna eritrea che da sola cresce due figli mulatti, una famiglia disadattata, povera, apparentemente senza nessuna speranza di uscire indenne dalla guerra.
Ma oltre a voler raccontare questa storia che può essere considerata “universale”, desideravo dare una risposta a chi spesso mi chiede “Ma perché i giovani fuggono dall’Eritrea?”. Dopo aver letto il romanzo chiunque può comprendere le sofferenze patite da un intero popolo sotto le bombe. Ma all’eritreo che fuggiva allora dalla guerra l’Italia mai avrebbe dato nessun asilo politico, a nessuno dei personaggi descritti nel mio romanzo, nemmeno ai fratellini Yoni e a Sami! Oggi invece lo concede con molta magnanimità.
Sono cambiati gli eritrei o è cambiata l’Italia? O vogliono farci credere che gli eritrei di oggi stanno peggio di quelli che subivano le bombe napalm? Io non credo e non credo nemmeno che oggi l’Italia sia diventata più buona ed “umana” rispetto al passato. Credo invece che l’Italia sia coinvolta nel “progetto” che sta spostando intere popolazioni dal Sud al Nord del mondo, facendole sbarcare nei suoi porti, e di fatto, gestendo il lucroso “business dell’accoglienza” che dà lavoro a migliaia di italiani. Altrimenti perché accogliere così generosamente eritrei o pseudo tali addirittura a “prima facie”, senza documenti e assegnando a tutti la stessa data di nascita: il 1° di gennaio?
In molti articoli a tua firma, che si possono reperire facilmente sul web, sei molto critico nei confronti del ruolo delle Ong nel Mediterraneo che, secondo te, rappresentano un elemento di pull factor che spinge molti africani a lasciare la propria terra per andare a vivere ai limiti dell’indigenza in Europa. Potresti dirci di più su questo punto per favore?
Da molto tempo ho smesso di credere alla bontà delle Ong, con molte di loro ho avuto qualche battibecco e di molte altre ho parlato nei miei articoli. Dalla mia esperienza sul fenomeno migratorio dell’ultimo decennio posso affermare che molte di esse si siano fiondate, metaforicamente parlando, come cani sull’osso da spolpare, per avere maggiore visibilità. Invito chi volesse sapere un po’ di più sull’argomento a leggere l’articolo “Salvataggio in mare oppure naufragio annunciato?” Io personalmente non credo alla bontà di costoro e mi chiedo chi potrebbe esserci dietro. Chi sono gli armatori di quelle navi “salva migranti”? E se fossero personaggi legati all’intelligence, alle lobbie, ex militari e persone legate a interessi particolari? Ma davvero costoro si sono redenti sulla via di Damasco?

Cos’è il movimento pan-africanista e che obiettivi si pone?
Pan-africanismo significa trovare soluzioni ragionando in termini non più nazionali ma continentali e prendendo a cuore l’idea della rinascita africana. Ma nonostante le buone intenzioni in Italia non emerge fuori un vero movimento capace di coinvolgere tutti. Ci sono stati dei tentativi per riunire le varie diaspore africane in un movimento “pan-africanista” ma finora con scarsi sviluppi positivi poiché gli africani qui residenti sono frammentati in piccoli gruppi e ci vorrà molto impegno per riuscire nell’impresa.
Qual è la situazione socio-politica oggi in Eritrea e come, a distanza di quasi trent’anni dall’Indipendenza, si sono riassettati i rapporti con l’Etiopia?
Al contrario del precedente governo etiopico dei TPLF, il nuovo Premier Abiy Ahmed, un leader giovane ma illuminato, ha finalmente accettato il verdetto sui confini stabilito nel 2002 da una Commissione Onu ponendo fine alla guerra iniziata nel 1998/2000. Così, da un anno la pace fra i due Paesi continua a progredire. A metà dicembre ’19 il Presidente Isaias Afewerki si è recato per la seconda volta ad Addis Abeba dove assieme al neo Premio Nobel per la Pace ha posato la prima pietra della futura sede dell’Ambasciata Eritrea, da costruire nel centro della città su un terreno donato al popolo eritreo come regalo di Natale.
Tuttavia, i TPLF spodestati da Abiy si sono asserragliati nella loro regione del Tigray e remano contro la pace non evacuando il loro esercito dai territori eritrei. Per evitare attentati al momento il confine eritreo con il Tigray resta chiuso. Le prossime elezioni di maggio 2020 saranno molto importanti per il proseguo del cammino di questa pace. Per questo l’Etiopia ha bisogno di guarire i suoi malanni, che sono i conflitti inter-etnici di cui soffre attualmente e riuscire a guadagnare così una certa stabilità politica.

Il giorno di Natale ho visto dei bambini andare in delirio per i regali che gli si davano, erano diventati aggressivi e sovraeccitati e, non ti nascondo, mi hanno fatto paura. In quel momento pensavo ai fratellini/personaggi del tuo libro quando trovano una pallina da tennis, e alla gioia che ne hanno provato per un dono inaspettato così semplice che un bambino qui da noi butterebbe nella spazzatura con disprezzo. Viviamo in un sistema di valori violento e frenetico, ordinato dal consumismo più becero che vuole fare di ogni uomo un nichilista senza spiritualità e un essere amorfo nei sentimenti. Quanto possiamo imparare a riguardo dall’Africa?
Nel mio libro la pallina da tennis ha un valore simbolico. È un oggetto effimero che però ha un suo grande valore affettivo. Oggi, in Occidente, nessun regalo potrà mai eguagliare quella pallina da tennis ricevuta così inaspettatamente, neanche il regalo di uno smartphone farebbe così felici i bambini. L’abbondanza e il consumismo possono uccidere oltre alla creatività anche l’infanzia. Ma in Africa, dove il consumismo è virtuale, è tuttora possibile vedere la gioia autentica che un piccolissimo regalo può dare ad un bambino, per esempio una matita colorata o una caramella. E vedere quei sorrisi ti fa sentire un essere piccolo piccolo.
Secondo te, è più facile trarre dal tuo libro un viaggio sui luoghi che descrivi o un film/serieTV?
In passato ambivo ad essere uno sceneggiatore cinematografico e ho anche partecipato a numerosi concorsi presentando alcune sceneggiature scritte da me. Oggi per raccontare Mother Eritrea ho scelto di creare una struttura narrativa cinematografica, quasi a raccontare per immagini, e così, con intrecci della trama e colpi di scena, mi auguro di aver dato vita ad un’opera non priva di momenti di climax ad alta tensione. Volevo creare un romanzo che fosse pieno di immagini stampate sulla pellicola e perciò indelebili. Ma la mia speranza è anche quella di riuscire ad incuriosire il lettore quel poco che basta per convincerlo a fare un viaggio nel mio Paese. Un’esperienza che potrebbe trasformarsi nel viaggio della vita. Andare a vedere con i propri occhi e scoprire la vera Eritrea, per conoscere il suo popolo, la sua storia, la sua cultura e la sua determinazione a resistere al neo colonialismo.

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