Nella crisi mondiale che stiamo vivendo uno dei settori più colpiti è senza dubbio quello dei viaggi. Dalle compagnie aeree ai piccoli tour operator, dai musei alle migliaia di b&b sparsi su tutto il territorio, dal Pil di una nazione agli imprenditori che in questa industria avevano investito tutto credendo nell’incrollabilità del settore, adesso le carte sul tavolo sono stata rivoltate e il vaso di pandora è stato scoperchiato. Se da un lato tutto ciò sta generando una crisi socio-economica senza eguali nei tempi moderni, dall’altro sta aprendo nuove vie di concezione dei viaggi e un orizzonte di turismo più umano, ma tanti sono gli interrogativi ancora irrisolti e le incognite che solo i più coraggiosi sembrano in grado di affrontare. Il tema è delicato ma ci tenevamo a proporre delle tesi, motivo per cui abbiamo contattato Duccio Canestrini, uno dei massimi esperti in materia, per provare a scovare con un’intervista cosa ci aspetta nel turismo post pandemico. Buona lettura!
[Duccio Canestrini è un antropologo culturale, docente universitario di Antropologia del Turismo nel corso di laurea in Scienze del turismo del Campus universitario di Lucca (Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa). Con un piede nell’Università e uno sempre in cammino si definisce un antropologo “pop”. Da molto tempo si occupa di viaggi, nuove tecnologie e rituali della contemporaneità. È stato per dieci anni inviato, in ogni continente, del mensile geografico “Airone” ed è autore di alcuni fortunati libri di saggistica. Ne abbiamo letti alcuni e li abbiamo trovati illuminanti, di sicuro continueremo a leggerne altri, qui nel mentre il suo sito internet per chi voglia ulteriormente familiarizzare con il personaggio http://www.ducciocanestrini.it ]
Cosa ha significato la pandemia per la spiritualità del viaggio e dei viaggiatori?
Il grande storico polacco Antoni Maczak insiste nel chiamare turisti anche i viaggiatori del Settecento. Il tour è un giro, chi va e poi torna è un tourista, fino ai primi dell’800 in italiano la parola si scriveva così. A maggior ragione oggi siamo tutti al contempo viaggiatori e turisti, ma di diverse specie. Per rimanere nella metafora naturalistica, Homo turisticus presenta un ventaglio di sottospecie. La varietà spiritualis è sicuramente una delle più pregiate e più rare! Direi che altre specie hanno subito maggiormente il contraccolpo, il turismo organizzato, industriale, il turismo di consumo delle destinazioni. Di certo la cultura non l’ammazzi con il domicilio coatto.
Nel suo libro Non sparate sul turista, del 2004, dedica un capitolo intero alla cosiddetta “Ossessione della sicurezza” sviluppatasi dopo gli attentati dell’11/9. Pensa possa esserci una certa affinità con quella che sembra profilarsi oggi come “Ossessione terapeutica”?
Viviamo nella società dell’airbag. Questo dispositivo di sicurezza, progettato per minimizzare i rischi di lesioni in caso di incidenti, può servire anche da metafora: minimizzare i rischi va bene, ma la sicurezza totale è impossibile, non è mai esistita. Se poi il prezzo da pagare è rinunciare alla propria libertà, o acconsentire a violazioni della privacy che fino a qualche anno fa sarebbero state inaccettabili, come minino è il caso di farsi delle domande. Il discorso vale anche per la salute totale. Quando mai nella storia è stata garantita? Lei mi interroga su un’affinità, quella tra ossessione della sicurezza e ossessione della salute. È una domanda interessante. Da un anno a questa parte le cifre sui decessi da pandemia – come sappiamo, conteggi più o meno plausibili – imperversano ossessivamente sui giornali e in tivù. Ma le “normali” morti da influenza stagionale non si contano più? E di tumore e malattie cardiovascolari non si muore più? La verità è che siamo sempre morti tutti: 100 miliardi di persone da quando Homo sapiens calca la scena planetaria. Cos’è, all’improvviso ci crediamo o ci vogliamo immortali? Urge una riflessione. Che poi con la “scusa” dell’epidemia ci siano stati abusi, controlli illeciti, trattamenti sanitari obbligatori, divieti di manifestare, criminalizzazione del dissenso, eccetera, è pacifico. Purtroppo, le situazioni emergenziali favoriscono sempre misure autoritarie.
Nel momento in cui le poniamo queste domande, le istituzioni nazionali ed europee sembrano accelerare il processo di approvazione del Passaporto Sanitario per poter viaggiare, quali sono le sue idee a riguardo?
Spero che non passi, perché spalancherebbe le porte a uno scenario distopico. Può darsi che io sia diffidente, anzi lo sono proprio nel senso che mi fido sempre meno. Chi controllerà i controllori? Chi ne approfitterà? Perché non sono state ascoltate e intraprese vie di cura antivirali? Perché tutta questa confusione sui vaccini? Perché i contratti con le case farmaceutiche sono stati secretati? Lo capirebbe anche un bambino che dietro stanno grandi interessi economici, non occorre essere cospirazionisti, basta ragionare. Oggi gli operatori si vaccinano per la disperazione, pur di riprendere a lavorare. Li capisco.
Nei suoi libri parla di superare il vecchio turismo neoimperialista per un nuovo turismo umanitario e solidale, come possiamo fare per raggiungerlo?
Possiamo scriverne, parlarne, fare formazione, pubblicistica, convegni, didattica, educazione permanente, comunicazione a tutti i livelli: social, tivù, giornali. Prima comprendere, poi agire di conseguenza. In pratica, evitando di premiare con il nostro turismo organizzazioni e strutture “vampire”.
Secondo lei come si stanno preparando gli operatori del turismo all’era postpandemica?
Sono in contatto con diverse realtà nel mondo dei viaggi, tour operator, agenzie, enti bilaterali, associazioni di categoria, albergatori. Chiaramente, sono disastrati. Qualcuno vorrebbe solo tornare alla situazione quo ante, esattamente com’era prima, altri hanno capito che qualcosa sarebbe comunque dovuto cambiare, perché non andava tutto bene. La cosiddetta new normality auspicabilmente dovrebbe comportare maggior consapevolezza (basti pensare al fenomeno dell’overtourism), il rischio invece è che si vada a stare – e a viaggiare – peggio di prima. Igienizzati e staccati dalle realtà locali.
Cosa pensa dei travel blogger?
Di nuovo forse occorre distinguere. Ho seguito recentemente una tesi di laurea di una studentessa sui travel blogger, al Campus universitario di Lucca. La maggior parte di questi giovani, diciamolo, fa “marchette”, cioè servizi pubblicitari – nel giornalismo si chiamerebbero redazionali – travestiti da inchieste, o da avventure e viaggi indipendenti. Ci vorrebbe invece un’etica e maggiore trasparenza. Perché un conto è vendere destinazioni, altro è l’invito al viaggio sulla base di una forte suggestione personale. Si sa come funziona il web, il discorso vale anche per le creme da mettere sul viso.
Molte persone nell’ultimo anno, a causa delle restrizioni imposte, hanno ricominciato a scoprire i luoghi più vicini a casa propria a dispetto dei viaggi di medio e lungo raggio. Il cosiddetto “turismo di prossimità” potrebbe avere la chance di vivere una nuova primavera?
Certo che sì, ma con due precisazioni. La prima riguarda un requisito fondamentale, la curiosità. Se c’è quella anche l’imprevisto, l’impensato, il marginale, il minuscolo diventano attrazioni. La curiosità – quella buona intendo non quella dei ficcanaso! – è una forma di intelligenza che dà enormi soddisfazioni. La seconda precisazione riguarda l’importanza dello shock da diversità. La diversità ha un valore pedagogico, ci fa crescere. Il confronto con alterità remote per me rimane fondamentale, perché provoca positivi “smottamenti interiori”. Questo è il valore del viaggio, rientrare cambiati.
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