Un viaggio letterario nelle Saline delle Puglie, una scrittura che va a ritroso nel tempo per scovare l’anima di questo territorio, i pensieri dei suoi radicati abitanti e la sua profonda storia, dalla scoperta a oggi. Un reportage esemplare, curato nel dettaglio ed ammaliante nelle foto. Da leggere, e rileggere.
TESTO E FOTOGRAFIE di Franco Chiarpei
Fu soltanto nel 1879 che l’agglomerato di casupole dal tetto di paglia, conosciuto come Saline di Barletta, prese il nome di Margherita di Savoia. In quel nucleo di pagliai abitava la comunità di operai impiegati alla salina, oltre a uno sparuto gruppo di condannati ai lavori forzati mandati lì anche loro a spalare sale. La zona era poco salubre, senz’acqua corrente, né fogna. In un articolo della rivista “Nuova Antologia” del marzo 1897, l’onorevole De Cesare scriveva: “Quella Salina rappresenta una vera ricchezza dello Stato, mentre la sua popolazione, così paziente e laboriosa, senza territorio né strade, è condannata alla miseria… Quella gente ancora spera di avere un territorio che emerga dalla palude”

La Tabula Peutingeriana, copia del XII secolo di un’antica carta romana che mostrava le vie militari dell’Impero, attesta l’esistenza di una località nota come Salinis, a ridosso del lago Salpi, poco lontano dal mare: un territorio salmastro intorno al quale, dal Neolitico in poi, è ruotata tutta la storia degli insediamenti circostanti legati alla raccolta del sale. Le saline di Margherita di Savoia, estese su una fascia di venti chilometri, sono oggi considerate le più importanti d’Europa, riconosciute come Riserva Naturale dello Stato e zona umida di valore internazionale.
Dopo aver preso un appuntamento con l’azienda che gestisce le saline sono partito, in una limpida giornata di fine estate, alla volta di Margherita di Savoia, della quale vedo già spuntare all’orizzonte le prime case con la linea costiera del mare alla mia destra e più a Nord, evanescente nella luce del mattino, il contorno frastagliato del Gargano. Parcheggio, e sono subito inghiottito dal via vai di gente che passeggia per corso Africa Orientale, una trafficata strada che corre parallela all’esteso lungomare sabbioso dove ogni anno, tra interminabili file di ombrelloni e cabine, si svolge una intensa e chiassosa vita balneare. Margherita di Savoia è una cittadina lunga e stretta di circa tre chilometri, attraversata perpendicolarmente da una moltitudine di vicoli che dipartendosi direttamente dalla spiaggia sbucano in prossimità dei bacini di sale alle spalle del paese. In queste viuzze, tutte composte da basse abitazioni a uno o due piani, il vento che giunge direttamente dall’Adriatico s’incanala fischiando e portando con sé la necessaria frescura alle saline, un singolare sistema di aereazione concepito negli anni ’30. Con il vento il sale diventa più duro e la qualità migliora.
Davanti al numero 90 di Corso Vittorio Emanuele, un austero palazzo anni ’50 sede dell’ATI Sale, mi fermo ed entro. Viene a ricevermi una giovane signora bionda, responsabile delle relazioni esterne, fasciata in un elegante doppiopetto nero sul quale brilla un distintivo dell’azienda. Dopo una breve presentazione terminata con un laconico — Sta per arrivare una persona che l’accompagnerà, intanto mi segua — scendiamo al piano sottostante per una sosta al piccolo Museo del Sale, visita dalla quale, mi fa capire la signora, è impossibile esentarsi. Nella stanza immersa nella penombra, sono raccolti ogni sorta di reperti: formazioni cristalline dalle insolite dimensioni, antichi attrezzi di lavoro utilizzati dai salinieri, e una fila di confezioni di sale comunemente in vendita sugli scaffali dei supermercati. Appese alle pareti, delle vecchie fotografie in bianco e nero testimoniano il lavoro che si svolgeva qui fino a ottant’anni fa, quando il prodotto raccolto a mano veniva allineato in bianchi cumuli dalla forma conica, che posso facilmente immaginare collocati in una galleria d’arte come una installazione di Land Art.
In compagnia di Salvatore, il fotografo naturalista di Margherita di Savoia al quale sono stato affidato, m’incammino verso i bacini di sale, immersi in un diffuso e puro silenzio. Alto di statura e fornito di un curioso pizzetto brizzolato, Salvatore conosce bene il territorio; quando era bambino veniva a giocare a pallone con gli amici nei bacini in disuso, e tornando a casa raccoglieva per la sua collezione le piume di fenicotteri e trampolieri portate dal vento. Salvatore è un appassionato birdwatcher.
Procediamo lungo gli argini che circoscrivono le immense vasche evaporanti allagate con acqua marina che dall’Adriatico è spinta periodicamente fin qui mediante l’ausilio di potenti idrovore. Nell’arco di quattro anni quest’acqua evaporerà completamente, lasciando i bacini ricoperti da una bianca spianata di cristalli pronti per la raccolta. Questo lento processo di evaporazione dalla terra al cielo, mi sembra sia come un passaggio dal materiale allo spirituale e conferisca al sale un carattere trascendente la sua condizione di bianco cloruro di sodio.
Il colore rossastro che vedi nell’acqua — mi spiega Salvatore che nel frattempo ha estratto dalla custodia la macchina fotografica — è dovuto alla presenza dell’Artemia salina, un minuscolo crostaceo rosa intenso, quasi rosso, che vive nell’acqua ad alto contenuto di sale. Quando questa evapora lasciando le vasche prosciugate, le sue uova rimangono in uno stato di quiescenza, come dormienti, in attesa che si ripresentino le condizioni più favorevoli al loro sviluppo. A rendere rosa il piumaggio dei fenicotteri è proprio l’Artemia salina, il loro cibo preferito. Guardando gli immensi bacini che sembrano estendersi all’infinito, ho come l’impressione che essi siano stati allagati con acqua e sangue.

Tra erbacce e bassi cespugli ingialliti dal sole, noto una pianta di un verde brillante, glabra, con steli carnosi. Salvatore ne raccoglie un rametto — Assaggia — dice porgendomelo. La piantina è sugosa e leggermente salata. É salicornia, una pianta grassa tipica delle aree salmastre. Si bolle e si mangia con burro e limone, sono gli asparagi di qui. La salicornia non è l’unica pianta commestibile presente: nel XVIII secolo, lungo gli argini, sono stati piantati degli alberi di gelso, alcuni dei quali sono ancora vivi. Le bacche di gelso bianco addolcivano la giornata degli operai.
Mentre ci avviciniamo a un vasto bacino punteggiato di fenicotteri, Salvatore cambia l’obiettivo. — Parla piano — mi dice sottovoce. Siamo a una ventina di metri dagli uccelli, un leggero alito di vento increspa la distesa luccicante dell’acqua e arruffa le piume rosa degli animali intenti a mangiare. Come al cospetto di un Eden celeste, rimaniamo muti contemplando il panorama, saziandoci di quell’armonia che solo certi scenari naturali possono offrire. — Siamo dei privilegiati — dice Salvatore. Per non raffreddare troppo la temperatura corporea, molti fenicotteri sono fermi nell’acqua su una gamba sola. Altri zampettano con cautela, sondando il basso fondale in cerca di cibo; altri ancora si librano in un volo leggero, come vaporose nuvole rosa che si dissolvono all’orizzonte. Non riesco a immaginare gli antichi romani che facevano strage di questi volatili per cibarsi di quella che consideravano una prelibatezza, la lingua.
Seguendo un richiamo simile al suono di un piffero, ci addentriamo tra i cespugli. — Un’avocetta — dice Salvatore. Quello che individuiamo saltellare sul bordo fangoso alla ricerca di qualche mollusco, è un grazioso uccello bianco e nero, una specie di trampoliere dal lungo becco incurvato all’insù. Di colpo l’avocetta si accovaccia su se stessa, per ricominciare poco dopo ad avanzare verso l’acqua, con difficoltà, come se si stesse trascinando un’ala. — Deve averci sentito — bisbiglia Salvatore allontanandosi. Di fronte al pericolo, si finge ferita, mimando di avere un’ala spezzata. Il predatore non apprezza la carne guasta e di solito abbandona.
Attraversato un ponticello sdrucciolevole, camminiamo per una buona ora lungo sentieri sabbiosi, bassi acquitrini e argini di fango indurito dalla salsedine. Ho scoperto nelle mie ricerche, che l’attuale conformazione dei bacini e la disposizione dei terrapieni per contenere le masse d’acqua, è dovuta al progetto di Luigi Vanvitelli, progetto che coinvolse molte maestranze già impiegate dall’architetto napoletano nella realizzazione della nuova residenza borbonica a Caserta. L’apertura di foci artificiali per il flusso dell’acqua dal mare, una razionale disposizione delle vasche evaporanti e i diversi collegamenti tra queste mediante una fitta rete di canalizzazioni, coinvolse centinaia di operai, manovali, galeotti, schiavi musulmani, senza trascurare l’impiego della forza animale, cavalli, buoi, e persino qualche cammello.
L’area dove il materiale raccolto viene depositato in attesa di essere portato alla raffinazione, è una vasta spianata deserta dove il suolo, ricoperto da uno spesso strato di sale solidificatasi negli anni, fa pensare ai terreni della Siberia, rivestiti da una dura coltre di ghiaccio. Al centro di questa pianura si erge solitaria una montagna bianca le cui pareti, graffiate dalle pale meccaniche, s’innalzano per una ventina di metri, un iceberg di sale. Questo bastione dall’aspetto invalicabile che si eleva solenne contro il cielo, racchiude tutto il valore simbolico del sale, come una montagna sacra. Nell’antica lingua malgascia, sale e sacro hanno il medesimo significato.

Penso al ruolo che la bianca messe ha svolto nel corso della Storia e alle leggende che l’hanno accompagnata: nell’antica Roma, la paga giornaliera dei soldati era il salarium, un pugno di sale; il corpo di San Marco, trafugato da Alessandria, giunse a Venezia occultato in un carico di sale; sul capo dei neonati era usanza spargere un poco di sale quale auspicio di futura saggezza; rovesciare il sale significava rompere il legame con la protezione divina, forma di superstizione dalla quale neanche Leonardo da Vinci si sentì affrancato quando, nell’Ultima Cena sotto il gomito di Giuda, dipinse una piccola saliera rovesciata.
Abituale compito tra le mansioni domestiche di una volta, era schiacciare e raffinare il sale, poi raccolto in eleganti saliere e servito nel suo abbagliante candore sulle tavole imbandite di aristocrazia e clero. Conosciuta come Saliera di Francesco I di Francia, l’opera scultorea di Benvenuto Cellini oggi custodita all’interno del Kunsthistorisches Museum di Vienna, è ritenuto il più straordinario esemplare di questi manufatti. Nude e avvolte da una manierista sensualità, le figure che adornano il prezioso articolo, alto ventisei centimetri e largo il doppio, hanno le fattezze di Gea, dea della terra, languidamente distesa di fronte a Nettuno, dio del mare; Benvenuto le descrive così: “s’intramettevano le gambe, sì come entra certi rami del mare infra la terra, e la terra infra del detto mar.” Le due allegorie descrivono la genesi stessa del contenuto che accompagnavano, nato dove la terra e il mare s’incontrano. Rubata nel maggio del 2003, dopo una fallita richiesta di riscatto stimata per dieci milioni di euro, l’opera è stata recuperata nel 2006 in un anonimo boschetto presso il villaggio di Zwettl, a circa 90 km dalla capitale austriaca.

Accompagnati dalle ombre di due fenicotteri in volo, lasciamo la zona di raccolta chiamata zona Regina, che insieme alla zona Reale, Aloisa, Armellina e Cappella, compone l’immenso puzzle delle saline esteso per oltre quattromila ettari. Immagino gli operai pedalare in bicicletta con la pala legata dietro la schiena, le grida di saluto echeggiare da un argine all’altro, e il via vai di due ruote animare la superficie acquitrinosa fino al calare dell’oscurità.
Dalla zona Regina sono occorse due ore abbondanti per raggiungere a piedi il piccolo borgo costruito nel secolo scorso, che ospitava gli uffici dell’azienda e alcuni locali disadorni dove i salinieri si ritrovavano a fine giornata per giocare a carte, a biliardo o ascoltare il giornaleradio. In questo villaggio, che per ampi tratti ricorda una desolata cittadina dei film western, la presenza dell’uomo si percepisce soltanto attraverso le tracce lasciate sull’asfalto sporco di sale dalle ruote dentate dei mezzi meccanici, e per una ruspa gialla abbandonata in mezzo alla strada. La peculiarità di questo luogo è un edificio degli anni ’30 adibito allo stoccaggio del sale raffinato e pronto per la consegna, una costruzione dalla mole incombente, un reperto di archeologia industriale. Per la sua realizzazione fu ingaggiata una personalità non meno illustre di Vanvitelli, Pierluigi Nervi.
Dall’esterno, il “Capannone Nervi” salta all’occhio per la sua dimensione monumentale e l’aspetto fatiscente, vetri rotti, tubazioni corrose, muri scrostati; ma è superando la soglia invasa dalla vegetazione e alzando lo sguardo verso la volta dell’edificio che si è colti dalla vertigine. Una serie di eleganti arcate in calcestruzzo a sostegno della copertura, attraversano il capannone da parte a parte, per tutta la sua lunghezza, dando l’impressione di essere sotto le centine di una gigantesca barca capovolta e trascinata qui dalla forza delle acque.

Nel silenzio risuona il ronzio di qualche insetto, dagli archi crepati emergono i ferri arrugginiti del cemento armato. Avanziamo a tentoni, facendoci largo tra migliaia di scatole di sale impilate su bancali di legno ricoperti da fogli di plastica impolverati. — Una volta questo posto brulicava. Un andirivieni di salinieri, con i sacchi di sale di cinquanta chili sulle spalle e la schiena fradicia. — La voce di Salvatore rimbomba nel vuoto, il suolo, sporco di terra e sterco di gallina, è bagnato dall’ultima pioggia. Il “Capannone Nervi”, progettato da un maestro del modernismo, è un animale morente.
Fuori dall’edificio la luce accecante del pomeriggio ci coglie di sorpresa. Procediamo in silenzio lungo una strada sconnessa, tra fabbricati e magazzini abbandonati; appoggiato a uno di questi, con la testa rivolta al sole, vediamo un uomo che Salvatore conosce : è un vecchio saliniere.
Dopo aver lavorato per quarant’anni, adesso Raffaele è in pensione. — L’odore dello iodio mi manca, il profumo del sale mi è entrato nel cuore e non se ne va più via. — Un paio di vivaci occhi azzurri gli illumina il volto, e una lunga ruga gli taglia la guancia in due. Annodata al collo, porta una sciarpa rosa antico. — Facevo il controllore dei bacini. Quando pioveva, bisognava scolmare l’acqua piovana prima che andasse a fondo a sporcare l’acqua salata. Allora, tra chiuse e bocchette bisognava correre. Poi ci hanno dato le biciclette, ma era sempre un gran correre. — Fino a dieci anni fa lavoravano in salina più di ottocento persone. Gente che arrivava da Cerignola, Trinitapoli, San Ferdinando, e durante la guerra, per mancanza di manodopera, anche prigionieri. — Io li ho conosciuti i prigionieri — dice Raffaele asciugandosi la bocca con un fazzoletto — Alcuni di loro dopo la guerra sono rimasti qui a fare gli operai. Vivevano in una zona di Margherita chiamata Cancello. Altri di loro stavano con i greci, gli jugoslavi o gli albanesi. Abitavano all’Anima Dannata, fuori dal paese, in una zona paludosa.

Lasciata la salina alle spalle, c’incamminiamo per il lungo viale che porta al centro abitato, in giro ci siamo solo noi. — Quando la sirena suonava e cambiava il turno, qui non si riusciva a camminare da tante biciclette c’erano. Era un casino. Ogni tanto arrivavano anche i controlli della finanza, con i cani che abbaiavano. Allora dovevi svuotare le tasche e se avevi gli stivali toglierteli. Il sale era proprietà del Monopolio di Stato, le donne lo nascondevano nel reggiseno, lì non potevano guardare.– Dopo una breve sosta per un caffè, Raffaele c’invita a casa per vedere la sua collezione di sculture di sale. Il rione dove abita è il più antico quartiere di Margherita di Savoia, Punta Pagliaia, dove una volta alloggiava il popolo salinaro. Negli anni ’50 i pagliai sono stati demoliti e sostituiti da villette a due piani, alcune con vista mare, altre come quella di Raffaele, con vista sulle saline. Alzata una pesante saracinesca, entriamo nella rimessa stipata di mobili coperti di polvere, elettrodomestici furi uso, stivali e attrezzi agricoli, oltre i quali una tenda di raso bianco separa, alla stregua di un sipario, la collezione di sculture. Maneggiandole con delicatezza, come si farebbe con oggetti della più fine cristalleria, Raffaele ci mostra una barca a due alberi, un fenicottero in volo, un’ancora, una coppia di anatre. Tutte forme luccicanti di sale, di una trentina di centimetri circa, che lui costruisce inizialmente in legno, incollando e assemblando un paio di ali aperte, un becco appuntito, la deriva di uno scafo, a volte anche smontando e rifacendo tutto da capo, e che dopo aver lasciato immerse per settimane nei bacini salanti, si rivestono completamente di uno spesso strato di candidi cristalli. — Non sai mai cosa ti combina il sale. Andare a recuperare i pezzi sott’acqua, è sempre una sorpresa. — dice mentre ripone ogni singola opera al proprio posto dietro la tenda. Adesso che Raffaele ha smesso di lavorare, non passa giorno senza che non si dedichi almeno per qualche ora a questa singolare attività. — Ogni tanto c’è chi ne vorrebbe comprare una, ma io preferisco regalarla. La mia è solo passione.
E’ già pomeriggio inoltrato quando, dopo aver salutato Raffaele e Salvatore, mi rimetto in macchina sulla via del ritorno, non prima di aver fatto una ultima tappa alla foce del fiume Ofanto che vedo adesso scivolare in un melmoso silenzio verso il mare. M’incammino lungo un argine fangoso, tra bottiglie di plastica e impronte di cani e cinghiali.

La ragione di questa mia deviazione è per vedere ciò che è rimasto della teleferica, costruita nel 1955 e in uso fino agli anni ’80, che dalle saline di Margherita di Savoia fino al porto di Barletta, trasportava i carichi di sale, per tredici chilometri. Questa è l’unica zona dove sono rimasti in piedi i pilastri lungo i quali centinaia di carrelli viaggiavano avanti e indietro. Vederli adesso persi nella desolazione della campagna, senza più i vagoncini sospesi e i cavi di collegamento, ma ancora eretti verso il cielo, essi sembrano militi immobilizzati nell’estenuante attesa di una battaglia. La scomparsa gloria della teleferica che trasportava quotidianamente tonnellate di sale, mi fa pensare alle parole di Raffaele : Guardarla ogni giorno andare su e giù, metteva gioia nel cuore. Sembrava di vedere girare una giostra.
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