Tra le letture più importanti della vita, un testo indispensabile per tutti gli amanti della letteratura di viaggio, della storia e della geopolitica. Il Grande Gioco ha attraversato l’Ottocento in una guerra di posizione, azione e strategia che ha visto l’Asia Centrale come scacchiere e le due superpotenze dell’epoca, l’Inghilterra padrona del mondo da un lato e la grande Russia zarista dall’altro, in uno scontro fatto da topografi, esploratori, assedi, guerre, archibugi, deserti, neve, canicola, città millenarie, predoni, turbanti, travestimenti e carovane. Un’infinità di personaggi stratosferici, pieni di audacia e coraggio, in grado di viaggiare per mesi sotto le intemperie di montagne glaciali o di paesaggi selvaggi allo stato brado, per raggiungere località fino ad allora rimaste fuori dalle orbite dei cartografi degli Imperi.
Studiato nelle scuole diplomatiche di tutto il mondo, Il Grande Gioco è un libro per conoscere la storia dell’uomo, le sue pagine si lasciano divorare dalla passione mentre i luoghi che ci mostra sono l’epicentro della terra e linfa della lotta globale ottocentesca. Hopkirk lascia a questo mondo un testo Sacro la cui lettura arricchirà l’anima e aiuterà a comprendere gli eventi contemporanei, perché solo conoscendo la storia possiamo capire il presente e proiettarci al futuro.
Ne parliamo con Federico Mosso, autore di narrativa storica, che avevamo già intervistato per il suo Il Club degli Insonni lo scorso anno.
Russia e Inghilterra, due potenze che si sono contese il mondo per tutto l’Ottocento, sono loro le protagoniste del Grande Gioco. Ma se dell’Inghilterra abbiamo studiato tanto la sua potenza, abbiamo tradotto un’infinità di letteratura e visto centinaia di film, della Russia sembriamo avere coscienza solo dallo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre. Eccetto la sua altissima letteratura, da noi è poco trattata la sua storia anteriore al Novecento e quel poco che ci viene trasmesso è sempre relativo agli zar che tenevano lo Stato in una condizione di povertà perenne. Io ad esempio non avevo mai letto qualcosa che la descrivesse così magnificente come nel Grande Gioco, perché secondo te?
Perché siamo europei dell’ovest e siamo influenzati per ragioni geografiche, culturali e politiche ad una visione occidentale della Storia compiuta. Tutta la Storia orientale è per noi, appassionati non accademici, se non proprio un campo d’indagine inedito e vergine, un terreno di scoperta poco battuto, da esplorare con occhio vivace.
Sì, sappiamo molto di Inghilterra ed Europa e attribuiamo a loro il peso maggiore nello svolgersi della Storia ai fatti svolti in una parte di Mondo, tralasciando altre prospettive. È la nostra percezione culturale dettata dal panorama storico che abbiamo di fronte a noi. Ma se riusciamo ad andare oltre il panorama da noi conosciuto, scopriamo innumerevoli punti di vista, vicende incredibili e personaggi mai incontrati prima: è il caso de Il Grande Gioco di Peter Hopkirk uno dei libri più belli che abbia mai letto e di cui mi sono gustato pagina dopo pagina, centellinando parole come se fosse whisky di gran lusso.
Il Grande Gioco: il mosaico dell’Asia Centrale colorato da secoli di turbolenza storica dove l’orso zarista si azzannava con la corona di Gran Bretagna. Le avventure da mille e una notte a portata di mano sul comodino. Tutto ebbe inizio con il sogno esotico dello zar Pietro il Grande che immaginò l’India tutta per sé. Il frutto proibito bramato anche da Napoleone.
Che avventure, tutte realmente accadute, laggiù tra selvagge catene montuose dell’Asia Centrale, tra giovani pazzi esploratori affamati d’onore e gloria che cavalcano veloci tra tempeste di sabbia incandescente o bufere di neve che tutto inghiottono. Sfide leggendarie tra cosacchi e giubbe rosse, alla corte di infidi e crudeli emiri, alla scoperta di oscuri khanati che non vedevano un occidentale dai tempi di Alessandro Magno. Il Grande Gioco della conquista degli angoli più remoti dell’Oriente, dove i muezzin cantano la gloria di Allah da antichi minareti di città d’argilla sotto il sole rosso fuoco.
Leggendo il libro di Hopkirk ci si immedesima in un mondo dove ci si muoveva con estrema lentezza, le esplorazioni duravano mesi o anche anni, e il viaggio era inteso come un atto di coraggio che richiedeva una preparazione profonda, come la conoscenza delle lingue e delle religioni, e una capacità di adattamento che, se errata, poteva costare la pelle. Cosa può apprendere un viaggiatore moderno da un libro come il Grande Gioco?
Hai detto bene: lentezza, preparazione, studio, adattamento, sacrificio e infinite scomodità. Così si viaggiava una volta nelle terre per noi europei ritenute essere ancora selvagge. E se oltre al viaggio ci aggiungiamo pure il fatto che quegli intrepidi fossero lì non per trastulli culturali ma per missioni d’intelligence ben precise e rischiosissime, possiamo ben immaginare le difficili prove che questi esploratori militari dovettero superare. Giovani avventurieri, sia inglesi che russi, motivatissimi, poliglotti e conoscitori di oscuri dialetti di emirati e khanati nascosti tra montagne e deserti, affrontavano peripezie lunghe mesi ed anni in terre pressoché sconosciute per un desiderio di servire la propria patria e corona o in spasmodica ricerca di riscatto perché aristocratici di dinastie decadute. Il riscatto nell’impresa, a costo della pelle.
Dalle pagine di Hopkirk, oltre ad apprendere numerose vicende storiche poco conosciute, ci si immerge in straordinarie avventure di viaggio. Capiamo ancora una volta la dimensione del viaggio antico, fatta di spostamenti in terre impervie, con una lentezza e una percezione dello spazio-tempo da noi moderni dimenticati. Siamo ormai comodamente abituati a muoverci con superficiale leggerezza come se migliaia di chilometri non fossero nulla, ma solo uno schiocco di dita tra i Continenti del Pianeta. Spesso riduciamo il viaggio ad una banale forma di consumo; un viaggio inteso come qualcosa di preconfezionato, dove non esistono sorprese di sorta, né tantomeno scoperte, perché tutto è stato già deciso alla partenza, dall’immagine standard e seriale in cui quel luogo è stato racchiuso dal modello di consumo itinerante, con esotismi artefatti e esperienze diventate paccottiglia da diffondere su Instagram. Ecco che la letteratura può venire in soccorso, e Il Grande Gioco – che non è solo libro di Storia ma anche di viaggi ed avventure – ci ricorda quanto sia bella, avvincente e preziosa la scoperta itinerante.
La frontiere si tracciano con le baionette dice uno dei generali russi presenti nel libro. Oggi come si tracciano secondo te e come l’idea di guerra si è evoluta da allora?
Ci vorrebbe un trattato di storia militare per rispondere in modo esauriente a questa domanda. In breve, e secondo la mia opinione, il significato di geopolitica e la realtà attuale dei confini, subiscono modifiche sostanziali dettate dall’abbattimento del senso di distanza che c’è nel Mondo. Pensiamo al secolo centrale ne Il Grande Gioco, l’Ottocento. Le Nazioni, perlomeno quelle più grandi e potenti erano entità fortemente distinte tra loro, e non solo dai confini che le separavano ma da tutto quello che c’era dentro, quindi economia, cultura, costumi, tradizioni, fedi religiose, usi. Erano paesi molto distanti tra loro, separati. Certo c’erano trattati, ambascerie, i tanti commerci, ma la distanza si avvertiva in modo molto più marcato. Di conseguenza, il concetto stesso di confine difeso e tracciato da baionette assumeva prospettive differenti. Oggi le entità nazionali sono molto più interconnesse tra loro (nel bene e nel male), il Mondo è più piccolo, il significato di frontiere diviene più fluido e di conseguenza persino le baionette. Poi, pensiamo a cos’era il pianeta nell’Ottocento. Da un lato le grandi potenze ansiose di allargarsi con annessioni, protettorati, colonie e dall’altro ancora una gran quantità di territori poco conosciuti, arcaici, che costituivano facili prede (non sempre così facili, basti vedere l’Afghanistan …) per gli appetiti dei pesci più grossi. Il generale russo che pronunciò quella sua frase era motivato da ragioni dettate dal suo tempo: pensiamo alla storia del gigante Russia, che dal principato di Moscovia si allargò a dismisura con le grandi espansioni del primo zar Ivan il terribile, poi di Pietro il Grande, di Caterina II, di Alessandro I e di Alessandro II, via via a fagocitare territori immensi, “vergini”, che consideravano di loro diritto, fino per l’appunto a marciare in Asia Centrale, dove però incontrarono e si scontrarono con ambizioni di un’altra grande potenza, quella dell’Impero Britannico della regina Vittoria.
Se a tempi era chiaro chi comandasse il mondo, adesso sembra che ci sia una nebulosa di pochissimi eletti la cui origine identitaria conta poco. Se dovessi immaginare un Grande Gioco contemporaneo chi sarebbero i protagonisti e quale lo scacchiere?
I giocatori e le pedine di un Grande Gioco attuale si trovano nei palazzi del potere finanziario mondiale. Il Grande Gioco attuale è privo di confini, basta che ci sia da guadagnare non in termini di prestigio ed economia per un singolo stato o sovrano, ma per un modello multi-sovranazionale globale che non è radicato in nessun luogo preciso ma è ovunque. Il Grande Gioco attuale è un indice di mercato, una way of life, una sfida planetaria, un orgasmo tecnocratico. Infinitamente meno poetico e avventuroso della Storia che noi abbiamo letto nelle splendide pagine di Peter Hopkirk.
Dal Caucaso all’India, dall’Uzbekistan al Golfo Persico, dalle città sacre dell’Asia Centrale alle cime più alte del Tibet, il Grande Gioco è un libro che trascina il lettore a conoscere luoghi e popolazioni millenarie. Se proprio devo trovargli un difetto, direi che i posti dove ci porta Hopkirk, in particolare le grandi città come Buchara, Chiva, Kabul e Taskent, peccano alle volte di eurocentrismo e danno poca descrizione della storia locale, ma forse sarebbe stato necessaria un’enciclopedia per questo scopo. Sei stato per caso in alcuni dei luoghi descritti dal libro? Ed eventualmente che impressioni ne hai avuto?
Ho avuto la fortuna di visitare alcuni luoghi a “margine” del Grande Gioco, cioè il Caucaso, l’Iran, le immense steppe kazake, il sublime (e molto turistico) Rajasthan indiano, nell’indo-pakistano deserto del Thar dove sorge la Città d’oro di Jaisalmer.
Vorrei soffermarmi sull’Iran perché all’interno del libro occupa una parte interessante dove non mancano gli episodi persiani. La terra degli scià ha infatti un ruolo importante in quelle vicende di servizi segreti e missioni speciali. Il suo territorio rappresenta caselle vitali di quel gioco kiplinghiano tra Londra e San Pietroburgo.
Natale del 1828, gelo e neve in tutte le Russie, è il turno di Nicola I al tavolo del Grande gioco. Lo zar tira i dadi. Un soldatino di piombo raffigurante un cosacco muove verso sud, si ferma sulla casella dove c’è scritto Teheran.
L’ambasciatore russo Aleksandr Griboedov, letterato e amico di Puškin, entra nella capitale con le vesti di chi sa di essere potente ma anche ingombrante. Nicola ha appena vinto la guerra contro l’esercito del principe ereditario Abbas Mirza, figlio dello scià Fath ʿAli Shah, conquistando i khanati di Erevan e Nakhitchevan e il diritto esclusivo di navigazione nel mar Caspio. Il diplomatico fa il suo ingresso a Teheran da vincitore, quasi da nuovo padrone, una presenza scomoda da ospite non desiderato. Uno dei compiti di Griboedov è quello di controllare che i patti del trattato di Turkmenchay vengano rispettati, ergo, la figura dell’ambasciatore è simile a quella di un esattore straniero. L’orgoglio persiano è ferito. Il pretesto per sfogare la rabbia popolare arriva presto, ed è incarnato in due donne ed un eunuco, tutti e tre di fede cristiana armena. Scappano dall’harem reale, chiedono protezione alla Madre Russia, supplicano asilo. Griboedov non esita ad accoglierli tra le mura dell’ambasciata e scoppia immediatamente una crisi gravissima; per lo scià è un affronto intollerabile e dalla sua parte ha la massa popolare metropolitana, furente. Dai pulpiti minbar delle moschee i mullah aizzano le folle viole di rabbia, le mani prudono, all’ombra dei minareti s’accende l’incendio della riscossa, le fiamme dell’odio si diffondono rapide e urlate, nelle infinite gallerie dei bazar i commercianti obbediscono al clero più intransigente e nazionalista, chiudono le botteghe: è il segnale.
Possiamo provare ad immaginare la terribile sorpresa dei funzionari dell’ambasciata quando in quella spaventosa mattina di gennaio aprono le imposte sulla strada adiacente l’edificio adorno sulla facciata con l’aquila bicipite imperiale dei Romanov. Una folla, una torma, una calca, una ressa, una fiumana, una marea, una moltitudine. Ecco quello è il panorama che Aleksandr Griboedov vede dal suo balcone. I rivoltosi premono sui cancelli che soffrono la pressione, stanno per cedere. Il corpo di guardia formato da cosacchi è ben armato e addestrato alla guerra, ma son troppo pochi quei caucasici per tentare di arginare il fiume vivente. Si adoperano lo stesso per una disperata difesa, tanto anche arrendersi equivale a morte certa affogati sotto l’onda disumana. Nel cortile si dispongono a file, innestano le baionette, sparano come matti, ne buttano giù a dozzine, muri di cadaveri, ma altri vivi armati di lame scavalcano i cumuli, son dappertutto, vengono giù dai muri, sbucano ovunque, i cosacchi arretrano combattendo, perdono il cortile e soldati, sprangano le finestre ma non basta. L’estrema ridotta è lo studio dell’ambasciatore Aleksandr Griboedov anche lui a lottare tragicamente per sopravvivere con sciabola in pugno. Un pugno di uomini prossimi alla morte è barricato in una stanza, con poche munizioni, la scrivania è rovesciata come un ultimo patetico riparo. I forsennati li cadono in testa: gli imbestialiti son saliti sul tetto e l’hanno bucato per attaccare dall’alto. Piovono le furie dentro l’ambasciata russa di Teheran. Griboedov è fatto a pezzi.
Morale della storia? Ce n’è una. Le ingerenze straniere fanno arrabbiare molto gli iraniani. Popolo orgoglioso, ha dimostrato la sua passione nazionalista anche in questioni molto più recenti. Basta ricordare la rivoluzione del ’79 con altre vicende d’ambasciata, questa volta americana, e la successiva crisi degli ostaggi (fatti decisamente meno cruenti di quelli del secolo precedente). Agli iraniani piace comandare a casa loro.
Tutte le ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale, fulcro ed essenza del Grande Gioco, sono oggi indipendenti e le sue città mete turistiche molto ambite. Ma sono anche bacino di idrocarburi, di giacimenti petroliferi e di gas su cui hanno posto gli occhi le più grandi potenze energetiche del mondo. Il Grande Gioco ha solo cambiato maschera?
Sì, ha cambiato volto ma Il Grande Gioco c’è ancora. Prima, in una domanda precedente, abbiamo parlato di un Grande Gioco attuale e planetario. Ma un Grande Gioco “locale” e riferito all’Asia Centrale c’è ancora ed è dettato dalle rotte energetiche delle grandi arterie degli idrocarburi. Se vogliamo, Il Grande Gioco ottocentesco dell’Asia Centrale si è ingigantito nel Novecento comprendendo anche il Medio Oriente. E comunque, quei vasti territori descritti da Hopkirk rivestono ancora una vasta importanza nella Storia più recente. Basti pensare al conflitto in cui si impegolarono i russi nel ’79 (ah, l’Afghanistan, sempre rimasto un desiderio russo, anche con i sovietici) e all’intervento americano a seguito dell’11 settembre (ah, gli americani, ecco a cogliere l’eredità inglese ne Il Grande Gioco).
Per chiudere, quale delle storie descritte nel libro ti è rimasta particolarmente impressa?
L’intero libro mi è rimasto impresso. Il Grande Gioco non è lettura che si dimentica, ed è un vero piacere saperlo lì, custodito dalla libreria di casa, come un tesoro da riaprire. Chi mi fece conoscere questo libro meraviglioso fu mio fratello Gigio, anche lui rimasto folgorato, e che mi donò l’edizione Adelphi con l’immagine in copertina di Kabul scattata da Steve McCurry.
Tra le dozzine di cose che vorrei citare ne scelgo due, una da parte britannica e l’altra da parte russa, riferite a due tra i tanti affascinanti personaggi incontrati.
“Il capitano Frederick Gustavus Burnaby delle Royal Horse Guards non era un ufficiale comune. Intanto, era un uomo di forza e statura prodigiose. Alto un metro e novantatré, peso novantacinque chili, centoventi centimetri di torace, era considerato l’uomo più forte dell’esercito britannico. Gli si attribuivano prodezze leggendarie: per esempio, che fosse in grado di portare un pony sotto braccio, oppure di prendere per la punta tra l’indice e il pollice una stecca da biliardo e tenerla orizzontalmente a braccio teso senza farla oscillare.”
“Murav’ev redasse un rapporto completo sulla sua missione, suggerendo e caldeggiando provvedimenti per liberare dalla schiavitù i sudditi dello zar. Descrisse ogni cosa, la consistenza delle forze armate del khan, i punti deboli delle sue difese, l’entità dei suoi arsenali e le vie d’accesso più agevoli per un esercito in marcia; riferì inoltre circa l’economia, il sistema di governo, i reati e le punizioni, le torture e i metodi di esecuzione (il preferito era l’impalamento). Parlò anche della “mostruosa crudeltà” del khan, che si dilettava a escogitare sempre nuove forme di supplizio e di castigo. A chi era colto a bere alcolici o a fumare, cose vietate da quando il khan aveva deciso di rinunciarvi, veniva tagliata la bocca fino alle orecchie. Il ghigno permanente doveva servire da macabro monito per gli altri.”
Il Grande Gioco: la sfida tra Impero russo e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia Centrale, tra il XVIII e il XX secolo. È una guerra fredda d’antan, combattuta da spie d’altri tempi, per il controllo di rotte commerciali, sbocchi oceanici, vie di sete, caravanserragli e carovane. È il torneo delle ombre.
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