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Il Grande Gioco del Caucaso. Intervista all’autore Clemente Ultimo

Aprile 12, 2021

Il giornalista Clemente Ultimo, già autore di diversi saggi su conflitti e questioni socio-politiche globali poco trattate dai media mainstream, ci porta a conoscere il conflitto che si svolge, in maniera quasi imperterrita da più di trent’anni, nel cuore del Caucaso e precisamente nel territorio del Nagorno Karabakh. Da un lato l’Azerbaijan musulmano e ricco di risorse energetiche di cui il territorio faceva parte dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, dall’altro l’Armenia che condivide con il piccolo paese caucasico la comune radice cristiana e spirituale. Un conflitto che ha radici antichissime e che l’autore ci illustra con un excursus storico semplice e approfondito. Un lavoro eccelso e una lettura adatta sia a chi vuole conoscere alcune sfumature dell’evoluzione del Grande Gioco ottocentesco, sia agli appassionati di geopolitica. Pubblicato a inizio 2021 dalla casa editrice Passaggio al bosco nella sua collana “Focolai”, consigliato a tutti gli amanti del genere, il testo si presenta come un saggio aggiornatissimo sull’ennesimo conflitto caucasico, ultima modifica dei confini risalente all’autunno 2020, e come un libro che permetterà al lettore di acquisire conoscenze su una parte del mondo poco attraente agli occhi dell’Occidente.

Per saperne di più abbiamo intervistato l’autore, buona lettura!

Dove e quando ha origine la questione del Nagorno Karabakh?

Volendo restringere la nostra analisi in un arco cronologico relativamente breve, possiamo individuare le radici di questo conflitto nel riassetto territoriale del Caucaso meridionale in epoca sovietica, in particolare alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Coerentemente con il principio di dividere le nazionalità per impedire che potessero diventare una minaccia per lo Stato sovietico, Stalin decide che il Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena, entri a far parte della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian piuttosto che della Repubblica “sorella” dell’Armenia. La tensione tra le due etnie – l’una mussulmana, l’altra cristiana; una sensibile al richiamo panturco, l’altra pienamente europea – in realtà non viene mai meno, accentuandosi con l’avanzare della crisi del sistema sovietico. Più volta il tema della “riunificazione” tra l’Armenia e il Nagorno Karabakh è posto sul tavolo dei vertici moscoviti, ma i leader sovietici non intendono derogare al principio del divide et impera. Si arriva così alla giornata del 20 febbraio 1988, quando il Soviet dell’Oblast del Nagorno Karabakh approva una risoluzione per avviare il processo di unificazione con la Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia. Il collasso dell’Urss e l’esplosione di violenza tra armeni ed azeri travolge questo processo incardinato nelle previsioni della costituzione sovietica e lascia presto spazio alla guerra. Si apre così un capitolo lungo trent’anni, caratterizzato da scontri in campo aperto e periodi di tregua armata.

In Nagorno Karabakh si scontrano due popoli, non due religioni. Si è combattuto e si combatte per la “terra”, per uno spazio fisico intriso di storia personale e collettiva. Per i villaggi, per i cimiteri, per quelle montagne che da tempo immemore ospitano la propria comunità. È questa la peculiarità del conflitto karabako rispetto ad altri?

Sì, benché l’elemento religioso contribuisca in maniera forte a definire l’identità di armeni ed azeri le guerre che dagli anni ’90 ad oggi sono state combattute nella regione non possono essere definite guerre di religione. Il movente vero dei contendenti è difendere – o (ri)conquistare, dipende dalla prospettiva – la terra in cui vivere. Una terra che ciascuno rivendica come appartenente tradizionalmente al proprio popolo. Anche lo spregiudicato ricorso – in occasione della guerra dello scorso autunno – da parte della Turchia alla propria “legione straniera” composta da islamisti siriani, schierati al fianco delle truppe azere, non ha modificato radicalmente questo dato. Anche se, ovviamente, l’intervento di miliziani che andavano all’attacco al grido di “Allahu akbar” ha acceso un faro su un rischio reale: ovvero che nel Caucaso – anche in quello russo – si possa riaccendere un conflitto alimentato dall’estremismo jihadista. L’esperienza della seconda guerra cecena e degli anni che l’hanno seguita è lì a ricordarci quanto grande sia questo pericolo.

La mappa del Nargono Karabakh dopo la guerra del 1992

Cos’è una Repubblica fantasma?

Sostanzialmente uno Stato che possiede tutti i requisiti richiesti per l’esercizio della sovranità (territorio, popolazione, governo, giusto per citare i principali senza addentrarci in aspetti più tecnici) pur non godendo di alcun riconoscimento internazionale. Quello della Repubblica di Artsakh (questo il nome ufficiale dello Stato karabakho) non è certamente l’unico caso di Stato fantasma – basti pensare, per restare in ambito ex sovietico, alla Transnistria o all’Abkhazia o all’Ossezia del Sud -, ma senza dubbio un caso esemplare: un sistema politico con standard europei, un controllo effettivo del territorio, una crescita lenta ma costante sotto il profilo socio-economico. Cosa manca? Il riconoscimento internazionale. Un riconoscimento che in questi trent’anni non è arrivato neanche dalla “sorella” Armenia, consapevole che un passo in questa direzione avrebbe significato lanciare una “bomba nucleare” nel Caucaso. C’è però una riflessione da fare sul comportamento della comunità internazionale: in cosa differisce il caso Artsakh da quello Kossovo? Il sospetto è che sia solo la volontà – e l’interesse – della superpotenza a far pendere il piatto della bilancia in favore del principio di autodeterminazione dei popoli piuttosto che verso quello dell’intangibilità dei confini.

Come ha approcciato l’Unione Europea a questo conflitto?

L’Europa come entità politica ha dimostrato per l’ennesima volta la propria assoluta inesistenza. L’Unione Europea non è riuscita, more solito, ad andare oltre il trito copione dell’invocazione del dialogo e del ricorso al diritto internazionale – uno dei nuovi feticci del XXI secolo – quali criteri per risolvere il conflitto. Con quali risultati lo si è visto lo scorso autunno.

Altra cosa il comportamento dei singoli Stati europei: in questo caso ognuno ha giocato la propria partita. Determinante il peso del gas e del petrolio azero nelle scelte di molti Paesi, ad iniziare dall’Italia. Il Belpaese, che ha nell’Azerbaigian uno dei suoi principali partner commerciali, si è chiuso in un imbarazzato silenzio durante i 45 giorni di guerra nell’autunno dello scorso anno, timoroso evidentemente di turbare il rapporto con Baku. Con buona pace dei secolari legami storico-culturali con l’Armenia.

Com’è possibile che l’arsenale azero, paese musulmano, sia fornito in buona parte da Israele?

Il principio è sempre lo stesso: pecunia non olet. Grazie alla disponibilità economica garantita dagli introiti petroliferi e gasiferi l’Azerbaigian ha potuto aumentare costantemente, e vertiginosamente, la propria spesa militare, costruendo anche grazie ad essa solidi rapporti politico-militari. Che le industrie militari di Tel Aviv siano di altissima qualità è fatto noto, perché dunque Baku non avrebbe dovuto puntare sui loro prodotti? E perché Israele non avrebbe dovuto venderli? Ennesima conferma di come in questa vicenda la religione non abbia alcun peso. Molto più importanti sono le considerazioni geo-strategiche ed economiche. Non bisogna poi dimenticare che i rapporti tra Israele e la Turchia, grande sponsor dell’Azerbaigian, sono solidi e di antica data.

È bene notare, infine, come anche l’Italia abbia nell’Azerbaigian un vivace mercato per le proprie esportazioni militari: i cannoni che armano le unità navali azere ed i futuri addestratori dell’aeronautica militare di Baku sono tutti made in Italy.

Cos’è il richiamo panturco?

È la grande carta che Erdogan sta giocando in questi anni per (ri)conquistare alla Turchia uno spazio geopolitico ed una profondità strategica decisamente più ampia di quella in cui il Paese anatolico era confinato. Per ovvi ed evidenti motivi il “campo di gioco” scelto da Erdogan coincide in buona parte con quello occupato un tempo dall’Impero Ottomano.

Il richiamo all’Islam da parte del “sultano” Erdogan è tutto sommato strumentale, utile in teatri come quello siriano, ma è l’appello alla comune origine turca che offre ad Ankara maggiori opportunità di penetrare in una regione strategica come l’Asia centrale, rinsaldando i rapporti con le repubbliche ex sovietiche. Non è un caso se il grido “Due Paesi, un popolo” è echeggiato più volte a Baku durante la festa per la vittoria riportata nella guerra dello scorso anno. E proprio il sostegno determinante allo sforzo bellico azero è il miglior biglietto da visita che Ankara possa mettere sul tavolo, dimostra come la Turchia sia disposta a sostenere concretamente i propri alleati.

Una capacità ed una volontà già dimostrate dai turchi in Libia, altro scacchiere che ha visto un impegno diretto ed efficace delle forze armate di Ankara. Se la strategia dispiegata da Erdogan avrà successo è difficile dire, di certo al momento si giova delle risposte frammentarie dei Paesi europei – fatta eccezione per la Francia -, in molti casi assolutamente paralizzati dall’iniziativa turca. Tra questi, prevedibilmente, l’Italia, che pure avrebbe non pochi motivi per contendere ad Ankara lo spazio mediterraneo.

Quanto è importante il ruolo di Mosca negli equilibri caucasici?

È fondamentale. Spesso si dimentica che il Caucaso settentrionale – quella che una volta si definiva Ciscaucasia – è parte integrante della Federazione Russa. Le regione è strategica per la Russia, per motivi commerciali, energetici, militari: pensare che il Cremlino possa chiamarsi fuori dalle vicende caucasiche è semplicemente inimmaginabile. Ben lo dimostra il conflitto dello scorso anno in Nagorno Karabakh: Mosca è stata determinante per raggiungere il cessate il fuoco, ottenendo per di più il dispiegamento di 2mila suoi militari nella regione, rafforzando così la propria presenza.

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