Negli ultimi quattordici mesi la pandemia ha modificato la nostra maniera di vivere, i nostri legami e il nostro approccio con la quotidianità. Un evento di portata mondiale a cui nessuno era preparato e che impone al cittadino comune di sviluppare nuove forme di resistenza spirituale per poter sopravvivere almeno psicologicamente. Ciò che però perpetua in forma incessante e ossessiva, più che l’emergenza sanitaria, è l’informazione dei grandi media che sembra non volere lasciare scampo al pensiero autonomo e critico. Per questo motivo il libro di Paolo Bottazzini, edito dalla casa editrice milanese “Bietti”, rientra in quel limbo di testi necessari per farsi una corazza contro un martellamento tormentoso che vuole metterci ko da un punto di vista psichico e impedirci di comprendere, a fondo, andando oltre la velina di angoscia che ci viene posta davanti a ogni tipologia di schermo a ogni ora del giorno e della notte.
Un saggio di raro acume prosaico, insieme scientifico e illuminante, che ripercorre la storia delle epidemie con metodo analitico e una chiarezza d’espressione esaltante. Da una Babilonia che come un fil rouge segue l’andamento della Storia, alla strumentalizzazione e incidenza politica che ha avuto ogni malattia nel corso dell’umanità, fino all’emergere della medicina contemporanea che plasma le forme delle nostre città e prova a imporsi sulla teologia e la politica. Un libro che farà stare bene il lettore, che al mattino si sentirà più forte, con quegli anticorpi intellettuali necessari per sopravvivere in questi tempi difficili, dove la tenuta psicologica sembra vacillare ogni volta che si accede all’informazione.
“Medicalizzazione”,“Immunità” e “Controllo”. Sono questi i tre capitoli del libro che l’autore sviluppa con paragrafi brevi e concisi, con esempi concreti e dirompenti, con una metodologia di ricerca zelante e umana, oltre a una naturale propensione a stimolare nel lettore un pensiero solido e autonomo. Definitivamente un libro da leggere per essere padroni di sé.
Abbiamo intervistato l’autore, buona lettura!
Spillover di David Quammen e Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond sono due testi che citi nel tuo libro. Potremmo inserire la tua opera in questa tipologia di saggistica oggi più che mai attuale?
David Quammen e Jared Diamond sono grandi divulgatori scientifici. Diamond è uomo di scienza e vincitore di un Premio Pulitzer. Quammen ha inventato qualcosa che si potrebbe definire una «divulgazione scientifica di inchiesta», in cui il narratore mette a rischio la sua sopravvivenza per testimoniare le verità di cui dà notizia. Non ho né questa ambizione, né il coraggio fisico necessario. La motivazione da cui ha preso le mosse il progetto del libro era reagire all’insistenza con cui l’amministrazione pubblica italiana (ed europea) e i media (soprattutto italiani) hanno presentato la strategia di gestione della pandemia come un insieme di misure rispetto alle quali «non c’è alternativa». Ma la retorica dell’ineluttabilità del destino è la tattica di un’imposizione di potere, non la constatazione scientifica di uno stato di fatto: Margaret Tatcher insegna.
Credo che il consenso di cui la quarantena è stata subito circondata, la soddisfazione del pubblico di poter finalmente temere tutti gli altri con un fondamento legittimo, reclamassero una spiegazione che procede oltre la sola pressione dei media e della propaganda politica. Soprattutto in considerazione dell’evidenza che il disastro organizzativo delle istituzioni pubbliche escludeva a vista d’occhio l’ipotesi che non ci fossero alternative alla resa incondizionata con cui lo Stato italiano – e gran parte delle nazioni occidentali – avevano accolto l’arrivo del virus. Per di più si è trattato di una resa che vanifica la funzione e la legittimazione stessa dello Stato, per lo meno nel senso moderno che gli conferiamo da Hobbes: la cessione della libertà incondizionata individuale, in cambio della protezione necessaria allo sviluppo delle attività sociali: cultura, lavoro, relazioni. Uno Stato che annienta la vita sociale per assicurare la sopravvivenza degli individui, rende superflua la propria esistenza rispetto allo stato di natura. A posteriori rispetto alla stesura del testo, con l’arrivo di Draghi, anche l’abdicazione di tutti i partiti dalla responsabilità di elaborare un progetto politico, mostra che è andato storto qualcosa negli strati profondi del funzionamento e della legittimazione del potere dello Stato. Qualcosa nella società contemporanea è sfuggito di mano, e richiede un’indagine più profonda del gossip istituzionale che riempie le pagine dei giornali. Soprattutto di quelli italiani. La ricerca quindi è nata per rispondere ad un’ansia mia personale, nella speranza di avviare una discussione che potesse essere condotta da chi è più preparato di me nella comprensione dei fenomeni sociali.
Cos’è il capitalismo della sorveglianza?
Il «capitalismo della sorveglianza» è l’etichetta con cui Shoshana Zuboff ha individuato una serie di pratiche che il filosofo sudcoreano Byung-chul Han ha a sua volta classificato come psicopolitica. I due studiosi denunciano un passaggio ulteriore rispetto alla biopolitica, che si è avverato nella società contemporanea con il successo planetario delle tecnologie della Rete. Il nuovo potere sovrano infatti non si esercita più attraverso l’imposizione di discipline, ma attraverso la seduzione dei social media e della gamefication. Qualunque prestazione si trasforma in lavoro, e qualunque comportamento viene tracciato, misurato, calcolato. In questo modo il potere anonimo, scientifico e tecnico, che la biopolitica ha insediato come condizione di possibilità del trionfo europeo, elimina ogni forma possibile di deviazione dal piano di ottimizzazione della salute individuale, di funzionalizzazione degli individui sani all’espansione del mercato e della produzione, e persino qualunque ipotesi di operatività non riconducibile ad una prestazione professionale individuale, misurata dal consenso sociale.
Contagionisti e anticontagionisti di fine Ottocento sono paragonabili agli attuali rigoristi e aperturisti?
Mi rendo conto di aver suggerito il paragone con alcune osservazioni nel testo, in particolare con la somiglianza tra le dichiarazioni degli attuali rigoristi e quelle dei contagionisti di metà Ottocento, quando la tesi anticontagionista aveva raggiunto il vertice del consenso. Senza dubbio, i contagionisti ottocenteschi e rigoristi sembrano condividere una certa retorica comune, e un certo disprezzo per la raccolta dei dati. Sarà che la prospettiva storica cancella la percezione dei difetti personali dei personaggi, per cui i protagonisti del dibattito del XIX secolo appaiono comunque più seri e più concentrati sulla serietà del dibattito scientifico di quanto accada oggi; in ogni caso il tentativo di stabilire un paragone continuerebbe a sembrarmi un’operazione di ironia, se non di satira, nei confronti dei soggetti del dibattito politico e giornalistico dei nostri giorni. Gli anticontagionisti contavano tra le loro fila uomini come Edwin Chadwick, Rudolph Virchow, François Broussais: le loro indagini e il loro sforzo organizzativo hanno dato vita alle infrastrutture igieniche su cui si fondano ancora il nostro benessere e la nostra salute, ancorandole a concezioni radicali di riforma politica, e hanno avviato il dibattito sui fondamenti biologici della medicina scientifica – molto più di quanto sia derivato dalle tesi dei loro avversari contagionisti, fino alla svolta di Pasteur e di Koch. Ai nostri giorni purtroppo aperturisti e rigoristi si contrappongono più che altro come tifoserie di squadre di calcio, condividendo per lo più lo stesso modello di sciatteria argomentativa e di smania di protagonismo mediatico.
Perché il lockdown torna in auge nel 2020 come strumento di contenimento di un’epidemia dopo più di centocinquanta anni?
Nella prima edizione del Novecento l’Enciclopedia Britannica definisce la quarantena come un dispositivo medievale di profilassi medica, che deve ormai essere considerato obsoleto. Si arriva a questa formulazione dopo decenni di scontri, non solo dialettici, che durante l’Ottocento hanno opposto le tesi di contagionisti e anticontagionisti, ma soprattutto di reazionari e di liberali. Il XIX secolo è l’epoca d’oro della statistica, e le quarantene non sono in grado di mostrare una reale efficacia contro la diffusione del colera e della febbre gialla: si mostrano essenzialmente come strumenti di repressione e di controllo applicati dai regimi reazionari contro i processi di evoluzione democratica, e contro le istanze irredentiste delle «nazioni senza uno Stato». La rivoluzione vaccinale dell’ultimo quarto dell’Ottocento, insieme alle scoperte di Pasteur e di Koch, promette un nuovo corso della storia, con la promessa che la scienza e la tecnica sarnno davvero in grado di liberare l’umanità dagli affanni delle malattie. Il Novecento è stato per l’Europa e per l’America del Nord la realizzazione di questa promessa: lo è stata anzitutto da un punto di vista di convinzioni e di ideologia, ma lo è stata anche da un punto di vista empirico. Le morti per malattie infettive hanno smesso di rappresentare la prima minaccia per la sopravvivenza della popolazione; il loro posto è stato preso dalle patologie dell’opulenza, tumori e malattie cardiocircolatorie, con una trasformazione sostanziale sia del rapporto con l’infermità nel senso comune, sia nella gestione e nei costi del sistema sanitario pubblico. Questa metamorfosi è l’effetto della diffusione dei vaccini, ma in misura molto maggiore è il risultato delle migliori condizioni igieniche delle città, della crescita nella qualità e nella varietà degli alimenti, nella scalata ad uno stile di vita meno letale per tutti. La società e l’economia sono le sedi principali del cambiamento: la democrazia keynesiana è stato il suo motore.
La medicina è una scienza?
Basta variare gli assunti epistemologici di partenza per rispondere affermativamente o negativamente a questa domanda. La traccia che ho seguito per ricostruire le strutture di potere interne alla medicina è di natura storica, non teoretica. La strada che la medicina ha seguito per assumere la forma contemporanea è passata nel corso degli ultimi tre secoli attraverso oscillazioni di impostazione teorica e di assetto istituzionale molto significative. In particolare, nel corso dell’Ottocento le figure eminenti che hanno lavorato per strutturare le fondamenta scientifiche della medicina erano convinti che fosse necessario conferire alla loro disciplina la stessa assenza di polarizzazioni teologiche che caratterizza le scienze già formate, come la chimica o la fisica. In altre parole, la medicina non avrebbe dovuto distinguere tra lo stato di salute e quello di malattia come tra due condizioni differenti, ma come tra due livelli di intensità dello stesso stato. La chimica non osserva composti velenosi e composti benefici per l’uomo con metodi, formule e comportamenti diversi. L’uso cui vengono sottoposti gli elementi e le sintesi chimiche è indifferente al loro effetto sugli organismi che potrebbero interagirvi. La medicina evidentemente non puù contare su questa caratteristica; al contrario, le è essenziale distinguere tra ciò che può conservare o condurre verso una situazione di salute migliore, e ciò che invece dirotta da questo stato desiderabile. I personaggi che hanno tentato la fondazione della medicina come scienza pura hanno avversato la tesi contagionista anche perché la connessione tra la condizione di malattia e la presenza di microrganismi avrebbe spezzato in via definitiva la continuità tra la medicina e le altre scienze, e le avrebbe conferito la forma di una tecnica, tesa ad uno scopo fondato su valori (la desiderabilità della salute), e non su fatti (come, ad esempio, la misurazione dell’infiammazione degli organi per Broussais). Da una prospettiva storica la vittoria di Pasteur e di Koch ha quindi consegnato alla medicina uno statuto di tecnica, fondato su molte scienze coordinate nell’ottenimento del risultato auspicato. Oggi, che dovremmo esserci liberati dalle ansie positivistiche sulla razionalità scientifica, questa definizione dovrebbe essere un problema solo per chi ritiene che lo statuto scientifico sia una sorta di blasone nobiliare cui non si può rinunciare; o per chi si circonda dell’aura della scientificità per corazzare la retorica delle proprie esternazioni sotto un’armatura di indiscutibilità e di infallibilità. In effetti è la situazione che si presenta sui giornali e sulle televisioni italiani ogni giorno, ad ogni ora e in qualunque trasmissione.
Secondo ciò che riporti nel testo solo alcuni paesi, principalmente in oriente, hanno utilizzato la tecnologia per contenere la diffusione del virus tra l’altro con risultati eccelsi (in primis la Corea del Sud), qual è stata la ritrosia maggiore da parte dei paesi occidentali, e dell’Italia, su questo tema e perché tu sei così favorevole a questo uso?
La totale indifferenza che non solo lo Stato italiano, ma in generale tutte le nazioni europee, hanno rivolto al problema dei dati nella gestione della pandemia del Covid-19, è il sintomo della completa immaturità della classe dirigente su questo argomento. Gli stati Asiatici (Cina esclusa), rispetto ai quali ci sentiamo tanto superiori in fatto di democrazia, hanno fissato da subito le regole per lo statuto eccezionale di raccolta dati in vista del contenimento dei contagi. I dati sarebbero serviti a identificare gli individui infettati e tutti coloro che potenzialmente hanno contratto il virus, avendo interagito con i malati. Testare i contagiati, tracciare i contatti per controllare il loro stato di salute, trattare i malati – sono le tre regole per il contenimento della pandemia, la riduzione al minimo degli infetti e dei morti. Non la quarantena. Il tracciamento è il processo fondamentale della strategia, dal momento che permette di contenere il virus prima che possa dilagare ovunque. Per farlo lo Stato deve chiarire chi sono gli attori del processo, quali diritti di accesso ai dati possono avere, per quanto tempo il dato deve essere conservato e quando deve essere distrutto. In altre parole, lo Stato deve fare lo Stato: normare, organizzare, controllare. Quando parla di Google e di Facebook, l’Unione Europea pretende di normare cose che ormai non può più controllare (infatti il Privacy Shield è saltato per questo, e lo scandalo Cambridge Analytica ha mostrato quanto sia infattibile eseguire le verifiche che sarebbero necessarie), ma al contempo nessuno ha chiarito chi, come, fino a quando e con quali sanzioni, debba maneggiare e poi distruggere i dati su malati, tamponi, tracciamenti. La tempesta di notizie su specifici individui ricoverati, malati, defunti per il Covid-19, che continua a inondare le pagine dei giornali e i servizi televisivi, non è un bello spettacolo di privacy. Ma nell’irrazionalità del senso comune, il dato diventa sinonimo di pericolo e minaccia solo quando è digitale. Se qualcuno scrive nomi e cogniomi con esiti di analisi su foglietti che vengono persi, consegnati, calcolati, ricalcolati, da mediatori di cui non si sa nulla, invece pare che non stia succedendo alcunché di male. Per il senso comune, ma anche per i giornali e per la classe dei politici, il dato che viene divulgato sui media cartacei o televisivi non è un dato, è già magicamente notizia. Il dato su un’app di tracciamento che avrebbe permesso di impedire la diffusione della pandemia invece è dato, quindi è male tout court. La constatazione che la piattaforma Immuni, e tutti i suoi omologhi europei, siano stati un fallimento, non è una grossa sorpresa. Spiace doverlo osservare, ma in questo episodio, persino Singapore ha istruito una lezione di democrazia, di efficienza e di razionalità a tutta l’Europa.
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