Sono lontano, staccato, separato, distante da tutto quell’universo che una volta m’appartenne, lì nell’ipocondriaca, perbenista, arcobalenica e ipertecnologica Unione Europea. Rifugiato nel cuore di nessun luogo, in una piccola anonima fredda nazione incastonata tra due mondi, appoggiata sulla sottile linea immaginaria che divide Oriente e Occidente politico, sono come un soldato trincerato nell’ultima nazione libera dalle fauci del Leviatano tecno-sanitario. Queste pagine, scarne istantanee strappate dall’anima di un esule, sono brevi frammenti di gelida quotidianità, una personale sintetica e soggettiva cronaca, di chi per un capriccio del destino si sia dovuto rifugiare in quella che i corifei del politicamente corretto definiscono come: l’ultima dittatura presente sul continente europeo, la Repubblica di Bielorussia del Presidente paternalista Alexander Lukashenko.

Questo paese si è fermato nel tempo, gli ampi palazzoni sovietici fanno sfoggio di simboli del grande partito unico, icone di fastosi gloriosi passati, orpelli di un grigiastro ideale che si protende e si sovrappone al delirante pandemico presente del virus mondiale, negli anni che precedono la grande tribolazione. Il centro piccolo e grigiastro, come l’anima degli abitanti imprigionati in questo luogo, si ammanta di edifici in architettura dal sapore retrò, lo stile è l’inconfondibile classicismo socialista, che tocca il suo apice con le “porte del centro città”, due enormi torri in cemento armato che svettano imponenti sul terminale ferroviario principale, costruite appena dopo la fine del secondo conflitto mondiale dai soldati tedeschi fatti prigionieri durante quella che a queste latitudini viene definita come la “Grande Guerra Patriottica”. La stazione centrale, pulita ed ordinata, è sormontata all’esterno da una piramide in vetro, adagiata sul tetto e da una banale scritta giallastra in cirillico, che ne annuncia l’esistenza. Da questo snodo, giornalmente lenti, lindi, meccanici treni si avviano verso le diverse destinazioni dai nomi impronunciabili: i villaggi sperduti nelle foreste nordiche, sorti nei pressi di grandi laghi e scarsamente popolati, o verso piccoli paesini con le dache in legno e i mercati improvvisati sulle piazze principali nelle quali ciondolano le anziane Babushke con i ruvidi visi fasciati nei consunti fazzoletti dai disegni floreali e gli operai alcolizzati, con la sigaretta senza filtro d’ordinanza appoggiata sulle secche labbra, complemento di visi disillusi e consumati dalle ore asfissianti di lavoro in fabbrica. Fuori e dentro la grande sala è un brulicare frenetico di persone, un’umanità pluriforme ma allo stesso tempo sostanzialmente monotematica e monocolore, ripetitiva nel loro incedere come le catene di montaggio delle manifatturiere statali o le linee dei grafici tracciate sui piani quinquennali: gli studenti universitari con le loro valigie e zaini, vestiti con jeans e giubbotti di brand anonimi, i militari e poliziotti con il loro andamento marziale e guardingo, gli operai in tuta da lavoro, i pensionati con le borse della compera e i burocrati occhialuti in improbabili completi gessati. Queste pattuglie umane salgono e scendono plasticamente le ampie scale dei sottopassaggi, avanzano nei tunnel del metrò freneticamente, ripetitivamente, sono file di anonimi volti senza sorrisi che si osservano circospetti nei silenziosi vagoni del metro. La loro triste vita quotidiana, segnata dal destino di produrre con la fatica del lavoro, i pochi rubli necessari alla loro sopravvivenza dentro gli ingranaggi dell’enorme stato apparato.

Dalla stazione, punto nevralgico e centrale, si allungano le strade principali con i loro nomi a eterna celebrazione dei grandi padri ideologici da K.Marx a Lenin, ne ricordano spavalde le loro mirabolanti imprese, via Internazionale, Piazza della Rivoluzione e quella della Vittoria con annesso obelisco fallico che svetta illuminato da una fiamma permanente, gelosa vestale che custodisce questo passato immutabile. Guerre, Rivoluzioni, Comitati centrali, Associazioni Giovanili, la casa dei Sindacati, gli apparati di sicurezza, il palazzo del KGB con le spie in borghese, tutto adorna il centro della capitale, come se vivessi dentro quei libri di storia contemporanea, studiati durante la carriera di relazioni internazionali ormai anni or sono. Un’odierna cartolina in bianco e nero, colorata unicamente dai fluorescenti schermi e dalle vetrine dei nuovi centri commerciali che bucano il sonnolento letargo della storia; oltre ai soliti e puzzolenti fast food americani, gentile e peccaminosa concessione capitalista della quale farai volentieri a meno.
L’iconoclastia dell’amatissimo Vladimir Ulianov dispiegata su piazze e palazzi si fonde con leggero sincretismo alle chiese cattoliche dal colore rossastro e alle cattedrali ortodosse con le immancabili cupole dorate, rendendo questo luogo un perfetto riassunto della lotta globale in atto: fede contro ateismo, materialismo contro spiritualismo, luce contro tenebra, poli opposti che si sfiorano, si fronteggiano, si ammirano, si ammaliano e si sfidano nell’attesa della parusia. Poi vi sono i grandi parchi, dal parco Gorky con le sue attrazioni per bambini ruota panoramica anni ottanta su tutte; al Parco della cultura e ricreo, veri e propri polmoni verdi incassati nel grigiore cittadino, i piccoli fiumi e il grande lago di Nimega attorniato da moderni bianchi altissimi palazzi, sono ulteriori sprazzi bucolici che interrompono il binomio grigio marrone dominante sullo sfondo capitolino.

In questo largo lento e sonnolento inverno un grande manto bianco è sceso sulla capitale, cammino flemmaticamente e intirizzito su questo tappeto urbano, imbacuccato con diversi strati di vestiti a riscaldarmi il corpo, in un’atmosfera fiabesca e surreale posso incrociare i volti, liberi da mascherine igieniche, delle donne bambole nei caffè, nei ristoranti, nelle taverne e nelle fermate dei metrò. Le loro siluette slanciate e snelle facilmente si sovrappongono geometricamente come un set di matrioske, ognuna al suo interno contiene un corpo sinuoso avvolto da calde sciarpe che lasciano intravedere spavaldi e sofferenti i loro occhi di ghiaccio, un azzurro o verde vitreo e austero che furtivamente sbricia il mio esotico aspetto latino, accennano un sorriso a volte soffocato tra le loro labbra ingrassate dal botulino. Contemplo giornalmente la loro bellezza plastica, le ammiro, le sbircio e le scruto, in questa città scarna di divertimenti, sono loro le vere protagoniste del mio esilio, una sana naturale ossessione che insieme all’assenza di schizofreniche restrizioni anima le mie giornate, che trascorrono come i fiocchi di neve che scendono placidamente sulle targhe e i monumenti ai caduti. Una nazione indistinta che vive in un presente remoto, che odora di vodka e sigarette dozzinali, con i disco bar della città vecchia ove tra le note di contemporanee pop star russofone si dimenano le sensuali fanciulle slave tra gli sguardi lascivi degli avventori turchi e arabi, intenti a fumare il narghilè, trangugiando le loro consumazioni alcoliche così da poter rimpinguare le casse statali, asfissiate dalle sanzioni occidentali; ingrossano le orde di sghignazzanti turisti sessuali che pullulano la famosa strada della vita notturna Zybiskaya, quasi tutti provenienti dagli eroticamente repressi paesi islamici.
I graffiti dell’artista brasiliano Cobra colorano d’allegria la zona di Oktoberskaya, vicino allo Stadio della Dinamo, che per ironia della sorte conquistò il suo unico titolo nel campionato dell’Unione Sovietica proprio nell’anno della mia nascita, segni premonitori calcistici si potrebbe dire. In questa area post industriale bohemienne, sorgono i bar hipster nelle fabbriche abbandonate, gli improvvisati set fotografici degli artistoidi locali che insieme a barbe, tatuaggi e musica tecno mi ricordano di vivere ancora nel ventunesimo secolo!!, una piccola isola dalle tinte acriliche che insieme alla città vecchia si contraddistingue dalla perenne foschia d’oblio e modestia che ricopre le popolose periferie con gli sgangherati condomini alveare, le carte da parete giallastre o verde pastello negli striminziti appartamenti, e le bottiglie di liquore accatastate sui bidoni della spazzatura vicino alle fermate dei mezzi pubblici, come amaro monito di dolori e bestiali frustrazioni affogate con sostanze inebrianti.

A dispetto delle apparenze e della forma, alla quale non ho mai badato, questo grigio rarefatto angolo del globo mi ha restituito la libertà perduta, quella che i burocrati e i lacchè in pallette a stelle dorate su sfondo azzurro mi avevano negato; lontano dalla moderna Unione snob dell’oligopolistico cartello finanziario, cammino da uomo libero senza un pass che attesti la mia naturale condizione d’emancipato, anni luce dalla tirannide delle lobby delle armi e delle case farmaceutiche che dettano l’agenda dei politici ventriloqui in salsa liberal che minacciano d’esportare la loro “democratica oppressione” a suon di bombe contro chi stoicamente resiste. Dal gelido vento del nord arriva un potente messaggio: “Non potete imbavagliare il dissenso di una piccola ma fiera Repubblica, nella quale il Compagno Presidente ha denunciato l’inganno delle élites, temprati dalla storia non ci piegheremo ai soprusi della contemporaneità, ne piegheremo il nostro braccio a una siringa per elemosinare briciole di vitalità, ma rimarremo arroccati in una estenuante robusta difesa dell’ultimo paese libero dalla dittatura pandemica.” E oggi più che mai risuonano attualissimi i versi che tre decadi fa cantava Giovanni Lindo Ferretti con i CCCP: “Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio la stabilità!”, bene non sono in Polonia sono alcuni chilometri più lontano a Minsk e, nonostante il freddo e le avversità, sono rimasto un uomo libero!!!

Testo e fotografie di Simone Monticchio.
Febbraio 2022
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